Anche se spesso vengo “clamorosamente” smentito, continuo a ritenere che un’adeguata “gavetta” live sia un’ottima “palestra” per le bands “nuove” in cerca d’affermazione e che l’esperienza “da palco”, le skills acquisite nel “confronto diretto” con il pubblico (e con altri gruppi), forniscano quel necessario “bagaglio” di conoscenze propedeutico alla realizzazione di validi prodotti discografici.
Tutto questo per cercare d’inquadrare la clamorosa capacità artistica dei padovani Crackhouse, che proprio “nuovissimi” non sono (la band è in attività dal 1996/97) e che nella loro “esistenza” hanno privilegiato l’esibizione dal vivo, calcando le scene d’Italia, Svezia, Germania, Olanda, Spagna, condividendole con Hardcore Superstar, Hanoi Rocks, Bang Tango, Love/Hate, Gilby Clarke, Tigertailz, Lords of the New Church, Gemini Five e Vain.
Ho, dunque, alla luce dei fatti, la “convinzione” che tutto questo “training” sia stato fondamentale (poi, magari i Crackhouse sono, invece, “solamente” molto bravi e basta!) per raggiungere i risultati ottenuti in questo loro primo full-length autoprodotto (che giunge dopo un demo e due Ep, a quanto sembra, assai apprezzati), un lavoretto di rock stradaiolo particolarmente riuscito, che pur ricordando la basilare scena californiana di riferimento, non cerca di “riprodurla” acriticamente, ma, anzi, alimentato dal medesimo tipo di “carburante”, la celebra con forza, naturalezza e sostanziosa personalità.
La voce di Kelly, in una preziosa infezione timbrica tra Taime Down, Michael Monroe e Jesper Binzer, è pressoché perfetta, sfrontata, corrosiva ed espressiva, e lo stesso si può praticamente affermare per la chitarra di Royce, che produce riff catalizzanti e ruggenti a raffica nonché assoli estrosi e taglienti come la lama di un rasoio (per referenze immediate ascoltatelo in “Nothing more to say”!). Aggiungiamo una sezione ritmica che sembra nata per queste cose, e otteniamo un combo straordinariamente compatto e preparato, capace di muoversi agevolmente sulle note di composizioni agili e anthemiche, registrate in maniera professionale ed equilibrata, che se avessero anche solo uno “zinzino” di superiore ruffianeria, potrebbero “mettere in riga” molte più “new sensations” straniere (e non) di quanto già non facciano.
Qualche menzione “d’onore” presa a spot, in un Cd costantemente intrigante: “Natural born star” e il suo refrain istantaneo, l’anthem irrefrenabile “T.R.L.”, il tocco vagamente Cult-esque dell’appassionante “Two shots away”, per finire con l’incredibile appeal di “Nothing more to say” e “Something for you” (mio personale best in class!).
E’ chiaro che, per quanto ben realizzata (almeno a livello sonoro, mentre da quello estetico si poteva, forse, fare qualcosa di più), quello dell’autoproduzione è ormai diventato un mezzo espressivo troppo “stretto” per i nostri Crackhouse, che si dimostrano, a questo punto, assolutamente pronti per lo stra-meritato “salto di categoria”.
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