Parto dal presupposto che non sia necessario fare alcuna presentazione dei
Dark Quarterer, perché ritengo impensabile che non li conosciate (però, se siete marchiati da questa gravissima colpa,
qui trovate tutto quello che vi serve per colmare all’istante tale intollerabile lacuna), dunque mi tuffo a bomba tra le note dello strepitoso
debutto omonimo del combo toscano, la cui pubblicazione risale al 1987 (anche se tra le mie mani ho la ristampa uscita del 2003 a cura dell’etichetta ellenica Unisound Records).
Coerenza, passione, originalità e grande consapevolezza dei propri mezzi: questi i punti cardinali su cui i Dark Quarterer, pur in una logica di costante evoluzione, hanno costruito quasi 50 anni di percorso musicale; punti cardinali che possiamo trovare, già compiutamente espressi, in un album che colpisce fin dall’affascinante – e vagamente inquietante – copertina.
I solchi di questo lavoro, che riveste un’enorme importanza storica in quanto considerabile a tutti gli effetti come il
primo disco di epic-progressive metal (sebbene sia d’accordo al 100% con questa definizione non posso onestamente attribuirmene il merito, essendo scaturita da una penna appena più prestigiosa ed importante della mia, quella di Claudio Cubito), sono permeati da
atmosfere cupe e misteriose, di cui possiamo riscontrare la presenza già in
Red Hot Gloves, brano di apertura che traccia subito le coordinate tipiche del sound sfornato dal trio di Piombino: riff cangianti ed assoli avvolgenti (
Fulberto Serena), trame percussive fantasiose, dinamiche ed incalzanti (
Paolo ‘Nipa’ Ninci) ed una voce che, per timbrica, estensione ed espressività da l’impressione di poter fare quello che vuole, e infatti giustamente lo fa (
Gianni Nepi).
Al di là di queste pur eccellenti qualità più puramente tecniche quello che colpisce di questa musica è la sua capacità di
fare sintesi tra generi diversi ed influenze molteplici, probabilmente retaggio di un passato da cover band di tutti i più grandi gruppi hard e progressive degli anni ’70, che ha permesso ai nostri di elaborare a loro volta, col tempo e con dedizione e meticolosità infinite, uno
stile assolutamente unico e personale.
A valorizzare il tutto una manciata di testi che, pur non legati da un tema comune, risultano intrisi da una vena marcatamente oscura (ad esempio in
Gates Of Hell il protagonista decide di votarsi al male in vita in modo da poter, una volta morto, spodestare Lucifero dal suo trono di re degli Inferi … Questo sì che è programmare il proprio futuro a lungo termine!). Ma a stupire sono anche la lunga, epica e maestosa
Colossus Of Argil;
The Entity, dotata a sua volta di liriche inquietanti e articolata su ritmiche più variegate e meno marziali; la conclusiva
Dark Quarterer, manifesto di un
universo musicale irresistibilmente attraente.
Senza voler escludere aprioristicamente nessuno, credo che non sia per tutti il metal contenuto in queste tracce, un
metal di stampo epico, come dicevamo,
ma che alla fine
sfugge, per fortuna,
alle canoniche definizioni; non lo è a causa della complessità delle strutture e delle soluzioni armoniche, della morbosità delle atmosfere dipinte a tinte forti e indelebili, di una vocalità intensa, teatrale e in perenne movimento. Però se lo si comprende e ci si entra in sintonia il gioco è fatto, ed è un gioco che non stanca mai.
Appena penalizzato da una produzione che onestamente non brilla per pulizia e ariosità, ma pervaso da una carica arcaica rimasta immutata negli anni,
questo capolavoro senza tempo chiede solo di essere ascoltato e ammirato senza remore, nella consapevolezza che, in cambio, non vi concederà la minima possibilità di scampare alle sue spire voluttuose.
Recensione a cura di
diego