Siamo nel 2002 e sono passati 9 anni da
War Tears, album che rappresenta per vari motivi un punto di svolta nel percorso artistico dei
Dark Quarterer (primo tra tutti l’aver veicolato il ritorno sulle scene della band dopo la separazione – non certo indolore – dal primo chitarrista e membro originario Fulberto Serena, a cui era seguita il reclutamento di Sandro Tersetti) e il combo toscano, che aveva rischiato di essere dato ancora una volta per disperso anche a seguito dell’abbandono dello stesso Tersetti, esce dal cono d’ombra grazie a due fattori: il primo è
Francesco Sozzi, che al momento di entrare in formazione (nel 1998) non era nemmeno ventenne; il secondo è
Violence, che è poi il protagonista di questa recensione.
A 30 anni (più o meno) dall’inizio del loro percorso musicale ed al terzo cambio di chitarrista, il gruppo viene chiamato (anzi, si auto-chiama) a dimostrare che la
smisurata passione e l’enorme
valore della proposta non sono venuti meno, tutt’altro.
È innegabile che i Dark Quarterer di
Violence non siano più gli stessi del debutto (come non lo erano quelli di
War Tears, sia chiaro), o meglio sono sempre loro a livello di cuore e di cervello ma con una
pelle del tutto mutata, anche al fine di assecondare un’esigenza per loro insopprimibile e fondamentale nel modo di intendere il fare musica: quella di
evolversi.
L’energia e le idee portate in dote dal giovane Francesco sono un patrimonio considerevole; la padronanza tecnica nei rispettivi strumenti (voce compresa) da parte di
Gianni Nepi e
Paolo ‘Nipa’ Ninci si è ulteriormente accresciuta grazie all’invidiabile costanza con cui hanno continuato a dedicarsi allo studio e all’esercizio, diventando anzi loro stessi insegnanti nella scuola di musica fondata nel 2001 dai due assieme a Massimo Bertoncini; il
carisma sprigionato dalle composizioni, dalle soluzioni adottate e dal coraggio messo in campo è notevolissimo.
Di certo meno votata all’epic e maggiormente al progressive, inteso più come
attitudine concettuale che come genere, la band evidenzia un diverso approccio nello strutturare i brani, che risultano più articolati e forse anche più difficili da penetrare rispetto al passato.
Le 6 tracce, raccolte attorno al tema comune della
violenza – trattato peraltro con testi di rara intensità e bellezza – risultano pervase dalla consueta aura di
maestosa solennità ma allo stesso tempo sono caratterizzate da un
suono profondamente moderno (soprattutto se confrontato con il flavour decisamente ‘vintage’ dei primi due dischi) e pieno, incentrato sulla strepitosa creatività di Sozzi – che si rende autore di riff duri, secchi e spigolosi e di armonizzazioni perfette – e su una performance straordinaria di ‘Nipa’ dietro i tamburi, impressionante per la fantasia, per il tiro, per la capacità di donare varietà e dinamicità ad ogni singolo passaggio.
A volare alta su questo magistrale tappeto sonoro la voce di Nepi, teatrale come mai era stata, in grado di esprimere
sensazioni e sfumature inedite, vere, commoventi.
Da non trascurare – anzi da evidenziare – gli arrangiamenti che vedono coinvolti flauti, archi e cori, grazie ai quali i brani acquisiscono grande profondità e ulteriore tensione emotiva.
In questa occasione non ha davvero senso citare questa o quella traccia, anche perché si andrebbe a compromettere l’unitarietà e l’omogeneità di un disco che solo ascoltato nella sua interezza lascia emergere pienamente la
miriade di sfaccettature di cui si compone e riluce.
Quando coerenza, forza, passione e perseveranza non vengono meno nonostante le asperità del cammino, nascono robe di questo tipo. Cosucce insomma. Ad una certa ce ne faremo una ragione, dai.
Recensione a cura di
diego