I cugini dei Down. Quelli che non si sono trasferiti in città. Stravaccati sulla veranda di un drugstore a scolare birra ed osservare la vita che li sfiora soltanto. Ed al sabato sera un po’ di musica, alcool e una bella rissa in qualche locale. Campagnoli del Maryland, troppo a sud per i nordisti snob, troppo a nord per far parte della cricca dei sudisti. Ed un’esistenza rabbiosa pronta ad esplodere. I Sixty Watt Shaman al terzo disco fanno il botto, deflagrano con violenza impressionante. Il precedente “Seed of decades”, per me uno dei migliori lavori del 2000, è stato un buon successo negli Usa (e ovviamente da noi non l’ha filato nessuno). Logica evoluzione degli esordi stoneggianti di “Ultra Electric”, aveva condotto la band in quel territorio sempre più affollato dove s’incrociano l’heavy metal crudo e furente, l’hard rock muscolare ed un sacco di altra roba, dal southern aggressivo alle radici rockblues americane. “Reason to live” è tutto questo moltiplicato all’ennesima potenza. Ha fatto bene la Spitfire, che ha in cartello gente come Zakk Wylde e di sound devastante ne capisce, a puntare ancora su di loro affidandoli alle cure del guru Scott Reeder, il cui tocco ha reso l’album levigato e tagliente come una lamina d’acciaio. Gli Sciamani hanno spinto l’accelleratore a tavoletta, pensando soprattutto a pestare sodo e ad alzare il volume senza però intaccare la distorta capacità emozionale che li rende particolari. Forti e sicuri di una sezione ritmica pesantemente metallica, con il bassista Reverend Jim che vive nel mito di Cliff Burton e lo omaggia pure in “All my love”, il quartetto esalta i propri due assi: lo stregone del riff Joe Selby che limita parecchio le sue favolose svisate psych per dedicarsi completamente alla costruzione di monoliti con il fragore degli anni ’80 (“Horse you rode in on””Reason to live”) o con il feeling dell’heavy-blues che richiama i C.O.C. (“Long hard road””Distance”), ed il cantante Dan Kerzwick, certamente uno dei più ruvidi e bravi in circolazione, un Phil Anselmo al cubo, capace con un urlo di sfondare i timpani più rinforzati ma anche di inaspettate carezze da southern-man (“The mill wheel””When the morning comes”). Il paragone con i Down nasce spontaneo per lo stesso modo di trasudare energia e spirito southern, ma i ragazzi del Maryland sembrano possedere addirittura una maggiore freschezza feroce, che Keenan e soci, marpioni ben sazi, riescono soltanto a simulare con il mestiere. “Nomad”,”Our name is war”,”My ruin”, sono ordigni sferraglianti, musica realmente dura e selvaggia che se ne frega di apparire moderna o tecnologica, anzi ambisce casomai a creare una sensazione “live” che sappia di sudore ed aria irrespirabile. Il culmine è raggiunto nel finale, “When I’m alone” è cadenzato hard rock fangoso che spara all’improvviso una cannonata speed straziata dalla lead di Selby e per chiudere in gloria finisce con l’assolo di Campbell, quasi fossimo davvero di fronte al palco. Ma c’è ancora di più. “All things come to pass” è sfibrante jam stoner-doom alla quale partecipano Reeder ed il grande “Wino” Weinrich, praticamente gli ex-Obsessed, per una manciata di minuti di discesa all’inferno, odore di zolfo ed assoli da Apocalisse, vocals abbruttite e distorsioni da incubo. Un “must” assoluto. Volendo essere pignolo, rimprovero solo ai 60Watt di aver eliminato quelle code acide che avevano reso micidiali brani come “New trip”o “Red colony”, ma la concisione delle nuove canzoni ha certamente giovato all’impatto d’insieme. Se Spiritual Beggars, Orange Goblin, Alabama Thunderpussy, ed ovviamente Down si possono considerare delle conferme, i Sixty Watt Shaman saranno per molti la sorpresa dell’anno, gli outsiders che non ti aspetti.
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