“Jersey devils” (1998), lo split-cd con i Solarized era servito ad introdursi nella scena con clamore. Il primo album “Further” (2000) ad essere incensati come una delle stelle più fulgide del panorama heavy-doom. Dopodichè il silenzio. Tempo trascorso nel dilemma se proseguire o sciogliersi, anni di abbandoni e rientri, liti ed abbracci, quasi protagonisti di una fumosa telenovela. Ma ora, improvvisamente, si ritorna a parlare di musica. Grande musica. Perché i Solace sanno maneggiare la materia doom come pochi altri, e adoperano saggiamente ogni forma di heavy music, dal metal allo stoner, dall’acid rock all’hardcore per un mix che travolge le barriere tra i generi. Una visione pesante e complessa di questo genere, coniugata però con un formidabile appeal melodico e con sferzate di psichedelia, per un risultato unico ed originale.
Nessuna lentezza esasperante, nessuna blanda tristezza gotica, il sound Solace è uno sbarramento da pesi massimi, un tenebroso tessuto di ferocia intrecciato dai voluminosi riffs di Southard, non a caso proveniente dai macigni Godspeed, sul quale si posa la cangiante voce di Jason, illuminante in ogni brano tra levità post-grunge ed esasperate rabbie ultrametal, confrontabile soltanto con l’altro sommo esecutore del ramo, Pete Stahl.
L’album si apre con una sorniona cadenza oscura, uno strappo violento di scuola thrash, il rombo sofferto di Jason cupamente sensuale e nervosamente violento, una folle armonica lancinante, l’orgia di note soliste, noise e dolore, carburante incendiario, la funerea litania finale. Sette minuti di “Loving sickness / burning fuel”, sette minuti di potenza vibrante, sette minuti di idee. E siamo solo al primo brano.
Sarebbe bello descrivere nel dettaglio ogni canzone, analizzarne i colori ed i sapori, in un disco dove ogni cosa sembra al suo posto, dove nulla è di troppo né è troppo poco. Ma andrei per le lunghe. I tempi moderni richiedono essenzialità, fretta, sintesi. L’esatto opposto di ciò che esprimono i Solace. Il loro è un lungo e pensoso dipanarsi di ritagli oscuri, nebbie gelide che sorgono minacciose, potenza metallica con carisma Sabbathiano.
In “King Alcohol” Southard distrugge il pedale del wha-wha scaricando tonnellate di distorsione sludge/stoner su una ritmica alla High on Fire. “Common cause” vede la magnetica presenza di Wino Weinrich, conquistato dall’ascolto di un riff del gruppo, nasce un episodio settantiano di scuola Spirit Caravan, il doom melodico di classe superiore. “Into the oven”,”Sled heavy”,”Rice burner”, dure, massicce, quasi hardcore, forgiate dall’acido e dal numero imbarazzante di assoli della temibile lead. Due cover diametralmente opposte, “Forever my queen” del culto ossianico Pentagram e “With time” degli Agnostic Front, pionieri dell’ibrido metal/punk, orizzonti ampi, conoscenza, versatilità. Ancora “Try”, nuova sbalorditiva versione del brano presente nello split dei diavoli del New Jersey, già assurta a cavallo di battaglia tra meditazioni psych e potenza della musica orrorifica.
Alla fine non ho saputo trattenermi, citando quasi tutti i brani. Complesso. Contorto. Enorme. Ho atteso numerosi ascolti per essere certo di aver colto in pieno la profondità di “13” e la sua distruttiva bellezza. Non meritava una lettura superficiale. Una prova stupenda per un gruppo che ha una marcia in più non limitata solo a questo settore. Il disco obbligatorio di inizio anno.
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