Non è facile suonare hard-rock nel 2008. O meglio non è agevole dedicarsi a questo genere senza risultare “retrò” oppure essere troppo “moderni”.
Insomma, si rischia di essere bollati come “nostalgici” o di snaturare le peculiarità tipiche del settore proponendo metodologie eccessivamente “progressiste”, e anche se personalmente non mi pongo di queste “paranoie”, cercando di valutare il valore artistico di un prodotto musicale indipendentemente dalla devozione o dal tradimento che esso consuma nei confronti di dogmi stilistici codificati, è ovvio che si tratta di una questione piuttosto spinosa e dibattuta.
Ebbene, i The Street tentano di mettere d’accordo sia i fans più “tradizionalisti” (a patto che non abbiano i “paraocchi”, però!) sia quelli che, pur amandoli, si sono un po’ stancati dell’ennesima riproposizione acritica degli schemi ottantiani, inscenando un sound che evidentemente affonda le sue radici nell’hard e nello street americano (con nomi del calibro di Van Halen, Bon Jovi, Tesla e Y & T, da un lato, e Ratt, Skid Row e L.A. Guns dall’altro, identificabili come primari ed ineluttabili maestri) e tuttavia non si accontenta di assorbire in maniera remissiva tale retaggio, il quale, infatti, viene filtrato attraverso il “setaccio del tempo” e arricchito (eludendo soverchie dismisure, peraltro) d’arrangiamenti più “attuali”, che lambiscono il grunge e il gothic se non addirittura l’industrial e il nu-metal.
Il procedimento si manifesta ai miei “occhi” come piuttosto interessante e coraggioso, e potrebbe non “infastidire” oltremodo nemmeno i “conservatori” meno irriducibili, anche perché il gusto per l’anthem “assassino” e per il riff catchy e traente, rimane un aspetto essenzialmente egemone nei suoni del Cd, con la voce sicura e decisa di B. Arnold (un mix tra Jon Bon Jovi e John Corabi) e le chitarre affilate e istantanee di Randy Vaughn e Chris Miller, a svolgere con competenza e classe i rispettivi compiti.
Il quintetto di Salt Lake City farcisce il suo sesto (!) lavoro in studio di questo gradevole contrasto, con brani trascinanti come “Greetings from the ghetto” (che volendo “esagerare” un pochino, potremmo definire come un impossibile incrocio tra Bon Jovi, White Zombie, Crue e Led Zeppelin!), in bilico tra una certa “classicità” dei refrain ad ampio respiro e la modernità delle strutture armoniche come “Devil’s dilemma”, “Nemesis” e “Shovel”, pregni di vizio e rock ‘n’ roll come “Step it up”, “spietati” e cupi come “Vendetta’s my name” e “Head or be dead”, magnificamente cangianti come “Walls” o ancora fascinosamente malinconici e darkeggianti come “Bitter”, “Light of the day” (davvero bella, con il suo tocco Cult-esque!), “One man battle” e “A voluntary loss of innocence”, i quali collettivamente rendono “The divine debauchery” un acquisto plausibile per tutti coloro che pensano che l’hard rock non debba vivere esclusivamente di glorie passate e che si possano ricercare “nuove” e piacevoli forme espressive anche senza sovvertire oltremisura “l’ordine costituito”.
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