Finalmente l’attesa è terminata. Il mistero è stato svelato. Troppi sussurri, indiscrezioni dei soliti ben informati, ardite speculazioni, si accavallavano da tempo sul possibile contenuto di quest’ultima opera dei Voivod.
Parte dell’inconsueto interesse era dovuto alla presenza di Jason Newsted, attirato dalla formazione Canadese all’indomani della sua uscita dai Metallica. I movimenti di un musicista per anni nell’olimpo del metal sono gustoso nutrimento per i media specializzati, ancora di più se decide di unirsi ad una band particolare come questa, conosciuta ma non di massa, seguita ma non idolatrata, non sufficentemente metallica per alcuni, troppo complessa e cerebrale per altri, certamente poco fortunata ed in possesso di un aura da eterni incompresi forse perfino ingigantita oltremisura.
Ma dopo vent’anni di carriera non può essere solamente l’arrivo di un nuovo componente famoso o il gradito ritorno del vocalist originario a catalizzare l’attenzione. C’era il desiderio di riascoltare un gruppo di livello eccelso, che non ha mai deluso i propri fans, c’era l’eccitazione preludio di un album importante, la netta sensazione che il metal non possa fare a meno di gente che annienta il superficiale luogo comune che si tratti di una musica basata solo sul rumore ed il folklore.
Tutte le congetture, le fantasie, le previsioni, terminano la loro esistenza quando irrompe il primo, scatenante riff hard di “Gasmask revival”. La sua lineare semplicità antica ci catapulta nel passato voivodiano, un ritorno alle strutture in continuo mutamento spruzzate di arguta psichedelia, alle melodie uggiose, acide, talvolta ironiche, inconfondibile parto di quell’insuperabile interprete che è “Snake” Belanger, uomo di fioretto anziché di mazza ferrata, ricomparso per riannodare il filo spezzato dopo “The outer limits”.
Proprio quel disco è uno dei punti di riferimento usati per il presente “Voivod”, al pari di “Angel rat”. Lo testimonia il fascino elegante e buio delle avvolgenti “Facing up” e “Divine sun”, brani che ereditano la magica atmosfera di quell’album controverso, ipnotiche spirali di gelida malinconia, rock crepuscolari pieni di una bellezza cupa ed introversa.
C’è un’impetuosa corrente settantiana che attraversa questo lavoro, un esigenza di sperimentazione, una rinnovata entusiastica energia nell’incastro di ritmi che rendano i brani non-lineari, percorsi frastagliati come gli strappi violenti di “Strange and ironic”, dove Newsted giustifica appieno la sua presenza, o le minacciose accellerazioni ultraheavy di “Rebel robot” e “Les cigares volants”, che vengono coniugate con la scorrevolezza di melodie accattivanti e con le caratteristiche distorsioni psych della chitarra di Piggy.
Fantasia geniale e stupefacente miscelanza di soluzioni che allontana la claustrofobia opprimente di “Phobos”, nulla qui è banale o schematico, non c’è posto per le esili canzonette del metal adolescenziale, spessore adulto e libertà creativa, dalla dolce e liquida tristezza che apre “I don’t wanna wake up”, esplosiva poi in un furente hard rock mascherato da suoni deraglianti, fino al tellurico drumming tribale di Away che satura l’ex title-track “The multiverse”, i cui echi spaziali sanciscono ancora una volta la perfezione del connubio metal / sci-fi.
Taglienti fughe di thrash evoluto, reso materia malleabile ed intricata, nelle cadenze militari di “Real again?”, nella furia di “Blame us”, nell’intensa velocità del suono di “Reactor”, con un’attitudine diretta e rocciosa che pare sempre più accostarsi alla nuova ondata di heavy rock che sta riportando in auge un approccio essenziale alla musica dura, cogliendo spunti dal passato per schiodarla dall’imbuto di regole immobili nel quale è caduta, atteggiamento affatto sorprendente per una band che non ha mai arrestato il suo progredire, non ha mai riciclato se stessa, tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé alla ricerca di nuovi orizzonti. Si chiude infatti con l’anthem orecchiabile “We carry on”, manifesto che racchiude la filosofia voivodiana, nuovo inno di quella che io considero una delle formazioni più importanti della storia del metal.
Il lungo tempo di silenzio prima di “Voivod” spingerebbe a qualificarlo come capolavoro, anche se la prolungata assenza discografica ha prodotto un accumulo di materiale che rende il disco talmente denso da richiedere una futura analisi a mente più fredda, ma sicuramente per coloro che come me giudicano il periodo psichedelico la massima espressione qualitativa dei Voivod, questo disco è l’avvenimento che segnerà indelebilmente l’anno in corso.
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