Dopo quasi trent’anni di rispettata carriera è giunto per i kraut rockers Bonfire il tempo di affrontare (non senza esitazioni, a quanto sembra!) addirittura il difficile “passo” della “Rock Opera”.
Sotto l’egida del direttore d’orchestra Pierre Walter Politz, ideatore del progetto, i nostri decidono, infatti, di affidare le loro possibilità d’affermazione (o forse sarebbe meglio dire di riconferma!) in questo sempre più “sovrappopolato” music business, alla piece teatrale di Friedrich Schiller “Die Rauber” (“I masnadieri”), alla quale s’ispirano per la realizzazione di questo loro nuovo lavoro.
Superando l’inevitabile sorpresa iniziale, non si può che dare ragione al buon Politz, convinto assertore delle affinità tra Schiller e il rock ‘n’ roll, dal momento che i temi base della vicenda, il dramma, la passione, l’amore, la gioia, il dolore, la ribellione e l’auto-distruzione, ben si adattano a questa dimensione espressiva, diventando, nelle sapienti mani di Lessman & c., il sostrato perfetto per sviluppare robuste e avvincenti melodie e toccanti ballate pregne di pathos e di trasporto emotivo.
La prima cosa da rimarcare è proprio che in quest’ambizioso full-length non vengono snaturate le caratteristiche musicali fondamentali dei veterani di Ingolstadt, i quali continuano a gratificare l’apparato cardio-uditivo dei loro sostenitori tramite di un solido e passionale hard rock, capace di attingere in uguale misura da Scorpions, Dokken e Bon Jovi.
Pulizia e competenza tecnica e compositiva, poi, sono praticamente incontestabili e anche se nel disco vi sono un paio di pezzi non esattamente esaltanti come “Blut und tod” (pessima) e “Lass die toten schlafen” (un po’ meglio), “complicati” nella loro resa dall’utilizzo della lingua tedesca (resosi necessario a causa di un processo creativo che ha attinto sia dall’edizione originale di “Die Rauber”, sia dalla sua traduzione inglese, fatto che fa definire l’albo dal punto di vista lirico, mutuando le parole del press-kit, un “selvaggio ibrido” anglo-teutonico), ma sicuramente sotto tono a livello generale, e un brano fin troppo “facilotto” come “Hip hip hurray” (anch’esso presente nelle bonus in una versione cantata in idioma germanico), altrove i loro fans ritroveranno i Bonfire che conoscono e amano, quelli che sanno coinvolgere con chitarre d’impatto e strutture armoniche istantanee (“Bells of freedom”, “Refugee of fate”, “Black night”, “The good die young”) e che sono altresì in grado di ammaliare con momenti romantici di grande suggestione (“Love don’t lie”, bellissima e “Do you still love me”, impregnata d’umori AOR, entrambe presenti pure come aggiunta al programma normale, in una pregevole trascrizione acustica).
Come sempre accade in questi casi e vista anche la natura comunque leggermente “particolare” della release, consiglierei di evitare abbastanza improponibili paragoni con un passato certamente brillante e tuttavia diventato quasi “scomodo”, e di godere in “libertà” di questo Cd, alla fine, proprio come dice Hans Ziller, complessivamente descrivibile come “a good melodic hard rock with hot ballads”.