Cominciamo dalla fine. Questo album è una realizzazione postuma, poiché i Milligram hanno chiuso la loro breve ed intensa esistenza nell’estate del 2002. “This is class war”, originariamente intitolato “Death to America” e profeticamente sconveniente, era stato pubblicato in un primo momento dalla Tracktor 7 in edizione limitatissima (sole 300 copie) ed immediatamente levitato ad oggetto di culto.
La Small Stone, sempre più qualitativa, lo ripubblica con l’aggiunta di una buona mezz’ora di musica, della quale dirò più avanti.
Ora i puristi del suono, gli esteti cultori del bello, gli adoratori delle produzioni laccate e tecnologicamente scintillanti, gli amanti del suono gioioso e fanciullescamente squillante, possono sospendere la lettura.
Raramente, in decenni di ascolti, ho udito in un disco dalle sonorità così distorte, piagate, rovinose, melmose, tanto da fornire la nitida sensazione di aver infilato per errore la testa nel cono di un vulcano.
La trasposizione di una cappa di fumo asfissiante, squarciata da folgori elettriche, una palude di sabbie mobili che ti risucchiano lentamente, facendoti assaporare la certezza di una morte inevitabile.
Brani come istantanei fulmini velenosi. C’è del punk-metal, certamente, ma il suo è un ritmo oleoso che sale con strisciante lentezza per azzannare alla gola. “Let’s kill”,”Jeff’s flag”, sono il rifiuto della modernità, l’estrema difesa contro la musica delle megaproduzioni di plastica, depravazioni metalliche vomitate nel rumore. Ma insieme i Milligram piazzano una “Let’s pretend..” che pare la versione malata e degradata degli Hermano.
Sono i due volti di questa folle e visionaria band.
Prima ti ustionano con il massacro di “Get fucked again”, poi ti ipnotizzano con una superba scarica heavy-psych in “Summer of lies”, con dentro perfino qualche nota di macilento piano. Il cantante Jonah Jenkins dapprima sbraita urla maniacali in “+2 charisma”, poi si traveste da clone di John Garcia per la “stonata” “I know, I’m sorry”, apoteosi del raw-fuzz.
Dalla metà in avanti lo stile vira sulla scarnificazione dello stoner d’assalto, una versione al vetriolo degli Unida o magari dei Roadsaw, paragone non bizzarro visto che Darryl Shepard è un ex di quella formazione (epoca “Nationwide”). I giri di chitarra diventano più avvolgenti mantenendo ugualmente l’aspetto di artigli feroci, così viene fuori una sventagliata di canzoni superbe e sanguigne, da “Nice problem” alla spaziale “Saturation emission”, dalla Kyussiana “She’s a prostitute” alle spettacolari fauci oscure dello strumentale doomeggiante “The resentinel”, tanto essenziale quanto orrorifico, per chiudere in gloria con la title-track ed il suo rombo che stritola il concetto di hard rock come genere mollino ed orecchiabile.
Senza tante storie i Milligram non v’incanteranno come i giocolieri dello strumento o vi blandiranno con tenere dolcezze cerebrali, semplicemente vi mostreranno cos’è il rock dopo che lo si sveste di tutta la porcheria che i falsi profeti gli hanno costruito attorno uno strato alla volta.
“Real rock”, non c’è altra definizione.
Come promesso, due parole sulle tracce aggiuntive. Diciamo che potevano essere ridotte, dato che comprendono anche stravaganze di noise ambientale, versioni alternative per sola batteria, ed altre diavolerie magari superflue.
Ma attenzione, perché in coda esplodono i dodici minuti di “Death to America”, un calvario per sola chitarra che fa impallidire Earth, Boris, Theeth of Lion.., ecc, roba per soli adepti degli abissi estremi. A seguire, la micidiale “My own private Altamont”, lungo slow oscuro gonfio di vibrazioni acide, brano che si piazza tra le migliori cose stoner degli ultimi tempi.
Basta questo per riverire l’idea della Small Stone d’inserire il materiale.
Ovviamente un gruppo del genere è durato un battito di ciglia, in cambio otterremo l’ennesima rock opera magniloquente al sapore di nulla.
Voi che credete ancora alla musica del sangue date almeno soddisfazione postuma a questa semplice, scarna, meravigliosa formazione.