Qual è il compito principale di una recensione?
Dare un messaggio a chi legge.
Una recensione fatta bene è quella che comunica, in fretta e catturando l'attenzione, il sunto del discorso.
Bene,
Malmsteen è tornato.
Ma no nel senso che siamo qui a commentare l'ennesimo disco fotocopia e brutto della sua declinante carriera.
E' tornato con un disco semplicemente bello, come non capitava da....beh, una quindicina di anni.
Il senso di soddisfazione che attraverso i muscoli facciali emerge sul mio viso non lo riscontravo praticamente dall'ascolto di "
Fire & Ice" del 1992, un disco che preannunciava la seconda parte di carriera dello svedese volante, quella piena di delusioni, di scandali familiari, di arresti, di droghe, della sempre più fastidiosa e deprimente obesità, un disco che sebbene prendesse la via senza ritorno della mediocrità (a conti fatti durata per più di un decennio) a causa di numerosi e vergognosi filler, conteneva ancora quel brio, quella capacità di emozionare e di sognare che poco dopo sarebbe scomparsa per sempre.
Passino i due capitoli con Vescera alla voce, formalmente perfettini e dotati sicuramente di qualche spunto interessante ma destinati a lasciare molto poco nella carriera di Yngwie, se non il ricordo della disastrosa
Amber Dawn nella sua vita, ma da "
Facing the Animal" compreso in poi la storia di Malmsteen è costellata di flop totali: un abulico "
Alchemy", un buono ma deturpato "
War to End All Wars", reso quasi inascoltabile dalla produzione più scandalosa ed amatoriale della storia della musica, ed infine il periodo più buio e risibile della storia di Malmsteen, ovvero i due lavori con
Dougie White alla voce che, a tutt'oggi, risultano essere un'offesa per chiunque abbia seguito la carriera e la storia di questo pazzo scandinavo, tanto che l'ultimo "
Unleash the Fury", pessimo sin dalla copertina, è passato totalmente inosservato anche all'interno di EUTK.
Insomma, una sorte destinata nemmeno al peggiore dei demos.
Il miracolo a questo punto è tutto nell'ingaggio del disgraziato T
im Owens.
Il licenziato per antonomasia, il cacciato nonostante una grande ugola, lo sfigato al posto sbagliato nel momento sbagliato, con la beffa di pochi mesi fa di suonare al
Gods of Metal 2008 nello stesso giorno in cui si esibivano Iced Earth e Judas Priest, due bands che lo hanno preso nel momento del bisogno e poi gettato e sacrificato sull'altare del ritorno del figliol prodigo, rispettivamente
Matt Barlow e
Rob Halford.
Forse anche per tutte queste disavventure, amato dal pubblico ma ripudiato dalle bands.
Ed, ironia della sorte, adesso ingaggiato dal più grande licenziatore della storia.
Alla SNAI la possibilità che Owens arrivi al secondo disco di fila con Yngwie è quotata 1000 a 1. Impensabile, anche vista la regola di Malmsteen che negli ultimi anni ogni due lavori cambia formazione.
Eppure, il disegno degli astri a volte è incomprensibile.
Sarà l'ingresso di un giovane in formazione, sarà la voglia di rivalsa, sarà il puro caso ma questo "
Perpetual Flame" fa battere il cuore come non accadeva da 15 anni.
E' un disco bello. Semplicemente questo. Bello. E non c'è altro da aggiungere.
Malmsteen lo conosciamo tutti. Sappiamo come suona, come compone, come dirige la propria musica: con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, ma quando ingrana la sensazione giusta e ritorna quella grinta, priva di troppi fronzoli ed orpelli che troppo avevano appesantito il suo songwriting negli ultimi anni, è bello, anzi fantastico vedere che seppure ciccione, invecchiato, photoshoppato a mille, il signor
Yngwie Malmsteen è in grado di far emozionare, ancora una volta.
Una formazione piuttosto anonima, se escludiamo l'ex Dream Theater
Derek Sherinian nuovamente alle tastiere dopo il fallimentare "
Attack", e la conferma di
Patrick Johansson alla batteria: tutto il resto lo fa sua Maestà, compresa la produzione che, nonostante il mix di
Roy Z, è sempre quello che è: fortunatamente non scandalosa come quella del vecchio "
War to End All Wars", ma certo con un vero produttore dietro la console il risultato generale, in primis l'impatto della voce di
Ripper, sarebbe stato di tutt'altro effetto. Ma lo sappiamo, Yngwie non può sopportare ordini impartiti da esterni, quindi chitarre in primo piano e tutto il resto a far da contorno.
Ciònonostante, l'impronta di questo album è grintosa ed i brani suonano praticamente tutti dannatamente bene. Ripper dona nuovamente epicità, solennità, in una sola parola, METAL, alla musica di Malmsteen che, per scelta o per casualità, torna a scrivere dei brani completi con una proprià identità e non delle strofe a casaccio, mere giustificazioni costruite intorno ad assoli, uniche nonchè vuote motivazioni per canzoni orripilanti.
Ma la voce di Ripper come si adatta al songwriting di Yngwie?
Dipende. In qualche brano è splendidamente perfetta, in altri risulta un po' forzata, ma certamente è un'iniezione di potenza ed energia come non sentivamo da anni. L'opener "
Death Dealer", presentata in anteprima a Bologna al Gods of Metal 2008, ci rimanda fin da subito ad atmosfere alla
Trilogy, che spaziano dall'aggressivo all'epico, lasciando pochissime, anzi nessuna concessione alle facili e stucchevoli melodie che troppo avevano trovato spazio negli ultimi anni.
Un disco lineare, compatto, che nonostante sfiori i 70 minuti non pesa affatto, che si fa riconoscere immediatamente in ogni brano e che non presenta doppioni o inutilità varie; l'unico momento un po' fuori tono per il suo fare troppo hard rock ruffiano è "
Red Devil" che in ogni caso non dà affatto fastidio nell'insieme di "
Perpetual Flame".
Ad accentuare un incredibile momento di grazia troviamo anche degli assoli particolarmente ispirati ed entusiasmanti, ovviamente sempre di scuola squisitamente Malmsteen, che adornano in maniera splendida dei brani già convincenti di per sè e che quindi amplificano un'ottima base di partenza, tornando ad essere il valore aggiunto di un brano e non la sua ragion d'essere.
Certamente la chitarra ricopre sempre il ruolo fondamentale e troviamo quindi tre strumentali, la buona ma non trascendentale "
Lament", la struggente e conclusiva "
Heavy Heart", nettamente di scuola "
Marching Out" ed "
Eclipse" (è un sogno poter riascoltare Yngwie su questi livelli) e la incredibile "
Caprici Di Diablo" che non sarà "
Far Beyond the Sun" ma che ne ha la stesse intenzioni ed emozioni.
E se parliamo di emozioni impossibile dimenticare le rabbiose "
Four Horsemen" e "
Damnation Game", dal riff sfacciatamente alla "
I'll See the Light Tonight" e contenente uno dei migliori solos del disco, alla sorprendente ballad di stampo settantiano "
Magic City", cantata proprio da lui come piace a Yngwie fare talvolta sul palco durante i propri spettacoli, sicuramente uno dei migliori episodi ed una nuova conferma per questo "
Perpetual Flame".
Anche i mid-tempos, da tempo problematici in fase di songwriting e risultanti dei polpettoni indigeribili per chiunque, stavolta riescono come per magia: la imponente ma leggermente prolissa "
Eleventh Hour", la solenne "
Live to Fight" e specialmente "
Priest of the Unholy", a parere di chi scrive assolutamente il brano più clamoroso di questo cd e con una parte centrale da brividi, ancora una volta richiamante i vecchissimi primi lavori dei
Rising Force.
Cosa possiamo dire ancora?
Che il libretto, nella sua decorosa bellezza (rappresentante sul retro un Yngwie sdraiato sulla sua Ferrari), è pieno zeppo di errori o comunque discordanze: "
Eleventh Hour" diventa elegantemente "
Leventh Hour" nella tracklist, "
Lament" è debitamente segnalata come strumentale e non si capisce come mai stessa sorte non sia toccata a "
Caprici" e "
Heavy Heart" che lo sono altrettanto; stupendo poi il tocco di classe dato dalla presenza nel booklet di una "
Tied of Desire", con tanto di testo, che poi sul cd...semplicemente non c'è.
Misteri di un Malmsteen che avrà curato personalmente anche questo aspetto, dopo aver licenziato e sbattuto fuori chissà quanti grafici... che ci vogliamo fare?
Yngwie, con tutti i suoi eccessi, le sue follie, le sue manie di protagonismo ed i suoi errori è questo, e lo sappiamo da anni: prendere o lasciare.
Questo è il caso di prendere: un disco così valido, convincente ed ancorato al passato, quello che ha reso Malmsteen la leggenda che è ancora oggi, Yngwie non lo scriveva da 15 anni e forse più: certo, non è "
Marching Out" o "
Trilogy" ma almeno le intenzioni sono quelle.
Se solo per queste parole provate un brivido, allora è decisamente il caso di rischiare ed abbandonarsi, stavolta con ritrovata fiducia, tra le braccia di "
Perpetual Flame".
Chi c'è da ringraziare per questo ben di Dio non è dato saperlo, ma l'occasione è troppo ghiotta per farsela sfuggire.
In chiusura un pensiero particolare va a
Tim "Ripper" Owens: il suo ingresso in formazione, tra ali di scherno e scetticismo, ha comunque alimentato questo piccolo miracolo ed attualmente il nostro più sincero "grazie" va a lui che tra continui soprusi, scherzi del destino e chissà quale attuali sopportazioni continua imperterrito a deliziarci con la sua voce d'acciaio.