Prima di tutto un breve “postulato”.
I Candlemass (insieme agli americani Trouble) sono stati, con “Nightfall” (ma anche l’esordio “Epicus doomicus metallicus” e “Ancient dreams” avevano molti pregi), la risposta più seria e credibile ai Black Sabbath, in un periodo in cui il pubblico metal era “rapito” dalle novità speed e thrash. Conquistare attenzione, fama e riconoscimenti con una formula musicale così anacronisticamente controcorrente, fu il segno inequivocabile di una band capace di “rinverdire” i fasti di certi tradizionali stilemi heavy settantiani, grazie ad una vocazione ed una consapevolezza artistiche sicuramente degne di nota, purtroppo troppo presto sconfitte da un’evidente carenza di personalità compositiva (in parte recuperata nei tempi recenti).
Evidentemente anche Gerrit P. Mutz concorda con questa perentoria affermazione, dacché anche prima di affidarsi al “no compromise true metal” dei controversi (oggetto di valutazioni che vanno dall’amore incondizionato fino all’estremo disprezzo) Sacred Steel, già offriva i suoi servigi in questi
Dawn Of Winter (autori nel 1998 di “In the valley of tears”) e oggi li riscopre con “The peaceful dead”, un disco che riprende le atmosfere cupe e solitarie del doom metal primigenio, filtrate attraverso una forma di sensibilità interpretativa rievocante, innanzi tutto, proprio il succitato combo svedese.
Il cantato (sorprendentemente, vista l’asprezza “felina” della sua laringe nei Sacred Steel) evocativo e teatrale di Gerrit tenta di ricalcare quello del “grave” Messiah Marcolin e lo stesso Jorg M. Knittel intinge le sue corde nell’inchiostro (nero, of course) già usato da Johansson e Bjorkman (e da Iommi, ma questa è un’altra storia), e anche se in entrambi i casi non viene raggiunta assolutamente l’eccellenza del succitato “stato di grazia”, il risultato finale è tutto sommato dignitoso e sembra pure abbastanza onesto, alimentato da un pathos sufficientemente “denso” e caliginoso, condito da sporadici richiami alla NWOBHM maggiormente odorosa di zolfo e incenso.
Il problema di fondo, ciò detto, è in questi termini: ci si può accontentare dell’ennesima rilettura di schemi ipersfruttati, suonata da una band tecnicamente sopra la media, ma creativamente piuttosto immobile (in un genere comunque non esattamente famoso per la sua “eccentricità”), formale e prevedibile?
Come già anticipato non ho trovato “The peaceful dead” un lavoro particolarmente monotono e “molesto” (e nel settore ce ne sono molti!), con brani come “The music of despair”, “Mourner”, “Holy blood”, “Throne of isolation” e l’ottima “Anthem of doom”, in grado di evocare le “giuste” sensazioni di solennità, tormento, mistero, oscurità e pesantezza, ma sono anche convinto che, nonostante ciò, per i Dawn Of Winter sarà davvero un’impresa ardua potersi guadagnare un rilevante posto al sole (o “all’ombra”, come sarebbe forse più logico!) nell’attuale mercato discografico.
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