Misfits: Danzig, Doyle & Graves solisti [Parte 3]

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Pubblicato il:29/10/2024
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Ed eccoci arrivati alla terza parte dell’excursus di questo mito musicale della musica dura. In questo episodio però ci concentreremo sui progetti solisti di membri storici che per un motivo o per un altro gravitano attorno alla galassia Misftis. Parliamo di Michale Graves, Glenn Danzig e Doyle Wolfgang Von Frankenstein.
Partiamo innanzitutto da Doyle (Paul Caiafa all’anagrafe), tralasciando la brevissima parentesi Epic Metal con i Kryst The Conqueror (che nell’89 pubblicò la piccola e inaspettata perla “Deliver Us From Evil”) il nostro amico con una vecchia conoscenza (Dr. Chud) e la sua ex moglie forma i Gorgeous Frankenstein, fautori di un Horror Punk decisamente metallico seppur addolciti da un vocalist con un timbro non molto feroce. Il loro unico album, tra le chitarre distorte e il basso grasso, la batteria monolitica e i cori potenti è un ascolto decisamente consigliabile, un bell’ibrido tra l’Horror Punk della band madre e la modernità delle produzioni Metal che tanto vanno in voga nel nuovo millennio negli States.
Se avete la possibilità quindi recuperatevi l’album omonimo che potrebbe piacevolmente sorprendere, soprattutto se non vi sono piaciute le ultime reincarnazioni così paracule dei Misftis.




I Gorgeous Frankenstein comunque avranno vita breve e dalle loro ceneri e grazie al sodalizio del nuovo singer Alex Story si formano i Doyle nel 2012. Essi sono subito molto prolifici e con l’ispirazione nell’aria, già l’anno successivo pubblicano il loro album d’esordio, l’esplicito “Abominator”.
Abominator” è un disco molto oscuro e pesante, nel quale la chitarra di Doyle è libera di sfogarsi grazie a riffs tritaossa, accompagnato da una sezione ritmica possente e con il buon Alex Story che presenta una timbrica graffiante e feroce, anche se si concede a qualche apertura melodica.
L’Hardcore/Horror Punk si tinge di influenze Thrash Metal e pure Doom Metal, presentando cambi ritmici repentini e pesanti breakdown che danno una scusa all’ignaro ascoltatore di fare un headbanging selvaggio con questo Metalcore deviato. Tra il vago sentore Sludge Metal di una “Love Like Murder” che odora di palude della Lousiana, l’orecchiabile “Valley Of The Shadows”, la grooveggiante “Hope Hell Is Warm”, la scabrosa e punkeggiante “Cemeterysexxx” che sembra provenire dai primi Misfits, la devastazione della title track e l’irruenta “Headhunter”, il disco si presenta bene, con pochi riempitivi ed una perfomance della band davvero valida, con Doyle e Story come assoluti protagonisti accompagnati però in maniera valida.




Dopo un bel disco che però in certi punti peccava di qualche ingenuità e di una leggera ripetitività il duo Doyle/Story si è rimesso al lavoro e a quattro anni dall’uscita di “Abominator” ecco che ci danno in pasto il secondo capitolo discografico. Le coordinate stilistiche rimangono pressoché invariate rispetto all’esordio ma “Doyle II Kiss Me As We Die” si presenta decisamente più maturo rispetto al suo predecessore. Il tempo trascorso è stato decisamente ben speso dalla band per levigare quanto più possibile il proprio stile, ed ecco che la proposta si fa più asciutta e compatta, con stacchi tra le parti feroci e quelle melodiche più convincenti oltre a canzoni dal minutaggio leggermente sfoltito. Come sempre la chitarra di Doyle macina riffs sanguinolenti senza alcuna pietà, la sezione ritmica è più dinamica, facendo fare il proverbiale salto di qualità al gruppo grazie a questo dettaglio, mentre dietro al microfono ormai Alex Story è completamente a suo agio sia quando deve graffiare, sia quando deve andare su lidi più ruffiani. Impennate ritmiche a strafottere alternate a possenti breakdown, qualche piccolo assolo di poche pretese, atmosfera mortuale in ogni dove e qualche apertura melodica ben dosata condiscono quella che a conti fatti può essere considerata la maturità stilistica dei Doyle: tra il singolo “Run For Your Life”, la cimiteriale title track che vede un’ospite d’eccezione (Alissa White-Gluz), la disadattata “Virgin Sacrifice”, o la terremotante “King Of The Undead” con il suo incedere poco rassicurante, il disco è pregno di grandi scariche Punk/Metal che poco fanno rimpiangere la direzione intrapresa dalla band madre. Nota di merito pure per la produzione che riesce ad essere moderna e professionale, senza però sacrificare sull’altare quel sentore di sporco e grezzume che spesso si va a perdere negli ultimi anni.




Michale Graves: pover’uomo, lui al contrario dei suoi colleghi da solista non ha avuto esattamente grande fortuna, tutt’altro. I suoi lavori in studio purtroppo sono sempre oscillati tra il mediocre ed il passabile e il nostro si è giocato la carta dei rifacimenti dei pezzi fatti con lui alla voce dai Misfits (in chiave ancor più melodica e per il sottoscritto stucchevole); di interessante il nostro sfortunato loser ha fatto i rifacimenti prettamente acustici dei pezzi di “American Psycho” e “Famous Monster” che rappresentano una piacevole eccezione alla sua discografia aimè poco interessante. La produzione pulita accentua ulteriormente la direzione molto più melodica intrapresa dal nostro ex disadattato, con melodie spesso piatte e banali, oscillando da mediocrità Pop/Punk a Rock di poche pretese. Però in acustico, vuoi magari per la chitarra scordata e lui che stona, dà un sapore autentico in questa veste di strimpellatore maledetto. Poi certo, con alcune polemiche scoppiate attorno a lui ormai si ritrova a fare concerti in qualche scalcinato bar negli states o poco altro.

Da ricordare inoltre che dal vivo di frequente collabora con Marky Ramone nei suoi Marky Ramone’s Blitzkrieg nel quale fa buona mostra di sé, con la sua voce che ricorda non troppo velatamente il compianto Joey Ramone: in questo progetto prettamente live si rispolverano i classici intramontabili dei Ramones che grazie al duo Grave/Marky continuano non solo a vivere, ma ad infiammare il cuore di migliaia di punks e rockers in giro per il mondo.

Ci sarebbe da parlare pure del disco solista di Jerry Only, “Anti-Hero” del 2022 che alla fine può essere per certi versi comparato a quanto fatto con gli Osaka Popstar, ma onestamente mi trovo davvero in imbarazzo a farlo: cosa te ne fai di ospiti illustri come Rob Caggiano o Dave Lombardo se poi li fai suonare in queste canzonette? Brutto da dire ma questi 25 minuti sono autentico ciarpame musicale troppo melenso per accostarlo al Punk e troppo blando per dargli una dignità Rock.
Che la reunion degli Original Misfits abbia impedito a questo lotto di canzoni di fregiarsi dello storico logo? Chissà, però direi che a questo dischetto ho già dedicato pure fin troppo tempo.

Adesso viene il turno di Glenn che all’indomani della sua uscita fondò i Samhain che altro non erano che una continuazione di quanto seminato con i Misfits: i pochi lavori presentano un Punk molto atmosferico (per gli standard del genere), anche se da sgrezzare. Giusto anche sottolineare come il leader si fosse circondato da collaboratori ben quotati nella scena Punk Usa, con gente che aveva militato in gruppi come Rosemary's Babies, Reagan Youth e Minor Threat, tanto per dire.
Rispetto al combo precedente la proposta è meno irruenta e serrata ed un sound dalle atmosfere quasi gothicheggianti, oltre alla solita registrazione casereccia.
I 25 minuti scarsi dell’esordio “Initium” suonano già come una chiara dichiarazione di intenti: un lavoro pagano, che a livello di sonorità sembra la diretta conseguenza ed evoluzione di quanto fatto con i Misfits, seppur la ferocia di “Earth A.D.” sia un lontano ricordo.




Il buon esordio, insieme al successivo Ep “Unholy Passion”, che altro non faceva che continuare il discorso intrapreso nell’84 e che è una piccola perla, sono ammantati da quella genuina ingenuità figlia dell’underground Hc a stelle e striscie: nonostante una fama secondaria rispetto a nomi più illustri (Dead Kennedys, Black Flag, Rollins Band, Nausea, NoMeansNo, D.O.A. Fear, gli stessi Misfits…) questi due lavori meritano di essere riportati alla luce. Da dire poi che come dimostrerà il live postumo “Live ’85 – ’86” queste canzoni funzionavano dannatamente bene dal vivo, con esibizioni energiche e con pochi fronzoli fatte in totale autarchia.

Quanto fatto sotto questo monicker non passerà sicuramente alla storia, ma va dato onore al buon Anzalone di aver creduto fortemente nella sua proposta, portando avanti la band con instancabile stacanovismo, trasformandolo nel tempo in un nome di culto nel suo piccolo: ecco quindi che “Initium” e “Unholy Passion” sono il preludio all’ottimo “November-Coming-Fire” che altro non è che l’anello di congiunzione tra “Earth A.D.” e “Danzig”.
Alla terza prova in studio i Samhain raggiungono la maturità, scrollandosi di dosso il fantasma ingombrante dei Misfits. Nell’86 Glenn Danzig comincia a maturare dal punto di vista vocale, lo stile musicale subisce una decisa sterzata Metal dando forma quindi ad una proposta musicale meno veloce e più possente; questi elementi insieme ad una registrazione finalmente di buon livello ci danno a conti fatti il prototipo dei primi Danzig, seppur in una chiave di lettura squisitamente Punk (genere, immagine e attitudine che saranno completamente abbandonati con la nascita dei Danzig).
Dopo di esso e con Glenn che entra in contatto con Rick Rubin i Samhain vennero sciolti per cedere il testimone ai Danzig, dei quali tratteremo la prossima volta. Ma anche se questo progetto morì, nel ’90 venne pubblicato ”Final Descent” che contiene canzoni inedite e in stato embrionale (che poi prenderanno forma definitiva nel debut album dei Danzig, mentre altre saranno resuscitate nel 2007 nel doppio “The Lost Tracks Of Danzig”), con testi e sonorità differenti oltre ad una registrazione approssimativa. A conti fatti un inutile feticcio per gli inguaribili collezionisti.
E dopo una ancor più inutile reunion effettuata alla fine degli anni ’90 venne il momento di porre l’ultimo chiodo sulla bara di questa piccola band, che nel suo piccolo e nell’arco di pochi anni pubblicò un pugno di lavori di buon livello, oltre ad una gemma nascosta tra le pieghe del tempo.




Infine non rimane che citare i – pochi – lavori fatti uscire a nome Glenn Danzig. Egli nel lontano 1981 fece in totale autonomia, suonando tutti gli strumenti, il bel singolo “Who Killed Marilyn?” che a conti fatti era una canzone dei Misfits sotto falso nome, suonato molto spesso negli infernali live act della band madre e inclusa nella raccolta “Legacy of Brutality”.
Oltre a questo ha fatto i due “Black Aria”, lavori di piccolo respiro, sia musicalmente (con arrangiamenti scarni e spogli) sia nella durata complessiva che si attesta sulla mezz’oretta scarsa in entrambi i casi.
Nel 1992 e nel 2006 insomma ci ha dato questi due album, dal sapore gotico/sinfonico, lavori Ambient completamente strumentali e minimali con Glenn che ci mostra un lato inedito di sé, alle prese con le tastiere. Uno sfizio che si è voluto togliere, un’idea sicuramente di grande interesse, una dimostrazione di grande apertura mentale, ma a parte la copertina peccaminosa del secondo “Black Aria”, oltre all’effetto sorpresa generato dal primo capitolo non c’è tanto da ricordare, a parte qualche atmosfera decisamente riuscita qua e là, anche se il primo “Black Aria”, vuoi appunto per il già citato effetto sorpresa, vuoi perché è stato pubblicato in un periodo nel quale il Glenn era in pieno stato di grazia si è comunque conquistato una sua piccola fetta di afficionados.




Comunque sono due piccoli album piacevoli da ascoltare come sottofondo per qualche lettura o per qualche videogioco dai toni cupi. In sintesi comunque è giusto dire che sono tutto tranne che dei brutti album e sarebbe bello che Glenn prima o poi faccia un terzo capitolo più maturo ed ispirato, magari con un aiuto esterno da parte di chi mastica queste sonorità più spesso: dopotutto seppur in maniera naif in questi due diamanti grezzi l’immaginario horror/erotico/blasfemo che lo hanno accompagnato da sempre si fa vivo a tratti.
Questi due lavori non ci cambieranno la vita e non saranno capolavori intramontabili, ma sono comunque lavori coraggiosi che denotano quanto egli sia un’artista veramente fuori dal comune.
Black Aria II” è un lavoro non tanto ben voluto dalla critica (e nemmeno dal pubblico) ma che insieme a “The Circle Of Snakes” della sua band consiglio di rispolverare e riscoprire: non si può mai sapere che vi possa sorprendere. Detto questo ci salutiamo e ci leggiamo al prossimo excursus che sarà la parte finale della galassia Misfits, quella dedicata al progetto principale di Glenn Danzig.


Articolo a cura di Seba Dall

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