Dopo aver parlato dei progetti solisti più o meno importanti messi in atto nella galassia Trash/Horror dei
Misfits ora, in quella che è la parte finale parliamo di quello più importante, quello che ha avuto più onore e gloria, oltre ad essere durato più nel tempo: i mefistofelici
Danzig! La scorsa volta avevamo citato le cose secondarie fatte dal nostro famelico
Anzalone a nome
Glenn Danzig e soprattutto i
Samhain, ma adesso si passa del suo progetto più importante nel quale ha portato al mondo del music business un suo personalissimo e particolare modo di intendere l’Heavy Metal.
Il riottoso cantante con la collaborazione di
Rick Rubin (produttore, che finalmente dà al nostro motorbiker i mezzi per avere una produzione professionale) e il reclutamento di
Eerie Von (basso, già compare nei
Samhain),
Chuck Biscuits (batteria, dotato di un certo dinamismo dietro alle pelli) e
John Christ (chitarra, mattatore di grandi riffs e assoli da manuale) trasforma i grezzi
Samhain negli iconici
Danzig che tanto – e sorprendente – successo avranno nel corso dei primi anni ’90 nel mainstream americano.
Nel 1988, dietro ad una copertina nera e con un bel logo dai connotati fumettosi, viene pubblicato l’omonimo esordio e rispetto a quanto fatto fino a non pochi anni prima con i
Misfits (e gli stessi
Samhain) i risultati sono molto sorprendenti. Sorprendenti perché da un Punk arrogante, sfacciato e fastidioso, il
Jim Morrison delle tenebre si dà ad un Hard Blues sensuale ed oscuro, pregnante di un fascino misterioso. Prendete l’ottimo “
Electric” dei
The Cult con il suo Blues Rock caldo, compatto e formalmente perfetto (non a caso prodotto da chi?), a questo mettete alla voce il
Danzig che stava piano piano maturando nei
Samhain e che tanto debitore è nei confronti del
Re Lucertola, e i contorni oscuri e fumosi dei primi
Black Sabbath: frullate bene il tutto ed otterrete una buona idea del risultato finale.
“
She Rides” con il suo Blues seducente, l’accattivante oscurità Zeppeliana di “
Evil Thing”, l’ipnotica “
Twist Of Cain”, “
Am I Demon” con il suo Rock maleducato, la sferragliante “
Possession” o la hit di “
Mother” diventano di colpo dei classici, in quello che è
un album di puro Blues luciferino, sfrontato e sensuale nel quale una seducente diavolessa a bordo di una mustang car ci invita a fare un bel giretto con lei.
E noi chi siamo per dirle di no?!Quanto fatto nell’88 in casa
Danzig è stato un fulmine a ciel sereno, da quell’Horror Punk venato di volta in volta dall’Hardcore (
Misfits) o dal Gothic (
Samhain) siamo passati ad un Blues Rock che prende la sua potenza dall’Hard Rock, il tutto condito da quelle atmosfere tipiche del Doom Metal americano (
Pentagram, Saint Vitus, Trouble, The Obsessed) nel quale aleggia sovente il Blues del Dealta del Mississippi. In tutto questo è giusto ricordare l’apporto di
Rubin (che sempre in quell’annata in lidi più estremi contribuirà ad un altro capolavoro: “
South Of Heaven” degli
Slayer) che porta con sé l’ottima esperienza fatta in precedenza con “
Electric” e che a tutti gli effetti rappresenta il quinto membro del gruppo.
Dopo un nuovo inizio assolutamente scoppiettante, il
Crooner di Lucifero e la sua combriccola di
Bardi oscuri a distanza di un paio di anni fanno uscire il seguito, che a parere di chi vi scrive è il loro apice. “
Danzig II Lucifuge” (uscito nel ’90 insieme a quella quadratura del cerchio definitiva fatta dagli
Slayer con l’epocale “
Season In The Abyss”) dietro ad una delle copertine più brutte che mente umana ricordi, si nasconde un vero gioiellino del Rock americano, nel quale sembra di poter ascoltare una jam session esoterica tra
Johnny Cash, Elvis Presley e i
The Doors più Blueseggianti e meno psichedelici.
Le ritmiche sono più pigre, la proposta non viene stravolta, semmai viene maturata e raffinata. L’Hard Blues quadrato e spigoloso (presente in canzoni come l’Heavy stradaiolo dell’opener, il Doom anthemico di “
Snakes Of Christ”, la pesante e lugubre lentezza di “
Pain The World” o l’orecchiabile “
Devil’s Plaything”) va a braccetto con una certa vena radio friendly che esplode in ritornelli di facile presa (“
Tired Of Being Alive”, “
Her Black Wings” o il retrogusto vintage di “
Killer Wolf”), questo senza però andare a parare in sonorità banali, standardizzate o melense, una cosa più unica che rara verrebbe da dire.
Tutto questo ben di dio (!) viene arricchito da piccole parti acustiche dal sapore squisitamente Country e Folk (il Country maledetto di “
I’m The One”, l’oscurità serpeggiante di “
777” o la ballata dal retrogusto ’60s di “
Blood And Tears”) nelle quali
Glenn ci sorprende per le parti crooner che sfodera, oltre allo straordinario gusto melodico di
John Christ, un chitarrista spesso poco citato rispetto ai big del settore, ma che meriterebbe senza ombra di dubbio più di qualche lode e che dimostra di saperci fare pure in acustico.
Qualche cambio ritmico, condito da qualche accelerazione in punti tattici, oltre che ad una produzione migliorata sono la classica ciliegina sulla torta, una torta decisamente gustosa e saporita che dimostra che non sempre l’innovazione è fondamentale, soprattutto quando si hanno le idee sviluppate nel modo giusto e con una forte personalità.
Puntuali come gli esattori delle tasse, a due anni di distanza (e nella stessa annata dell’iconico “
Children Of Doom” dei
Saint Vitus oltre allo Stoner di “
Manic Frustation” dei
Trouble) la premiata ditta
Danzig/Rubin pubblica il terzo “
How The Gods Kill” che riprende l’Hard Blues luciferino del capolavoro che lo precedeva e lo ammoderna appesantendo la chitarra di
Christ e dando all’insieme una direzione più Metal rispetto al passato. Un Doom Metal che ha un sapore moderno ma allo stesso tempo vintage, con riferimenti al rock dei ’60s: il sound è possente, le atmosfere ossessive ed esoteriche, il buon ”
Evil Presley” ormai ci dimostra che con la sua voce più
Morrisoniana che mai, fa un po’ quello che gli pare, la sezione ritmica nella sua semplicità è sempre calzante e vibrante tra accelerazioni improvvise contornate da cupi e claustrofobici rallentamenti.
La proposta a ben guardare è quasi completamente immutata, ma l’intesa tra i cinque (compreso il produttore) è a livelli così alti che pure un semplice album di mestiere è un ottimo album, seppur la formula sia a conti fatti molto semplice, senza particolari sperimentazioni o virtuosismi.
Ma questa semplicità viene resa speciale dalle atmosfere nere e stradaiole, oltre dal forte carisma del singer, di questo sgangherato Blues Metal: ecco quindi che il Blues caldo e diabolico si impossessa di “
When The Dying Calls”, mentre l’iniziale “
Godless” con i suoi riffs pesanti e ripetuti è un manuale di Doom novantiano, “
Dirty Black Summer” con il suo ritornello ficcante è una istant hit, la decadente e malinconica title track, l’energia sfrontata del metal di “
Do You Wear The Mark “e “
Left Hand Black” sono le classiche songs che elevano un disco. La copertina tratta da un lavoro di
Giger è una chicca davvero notevole che infiocchetta questo terzo regalo fatto al mondo del Rock oscuro e dannato, che lo premia con un successo di critica e vendite assolutamente meritato.
La band guidata dal mitico ex singer dei
Misfits, sia per una proposta musicale sì personale, sia per la sua immagine molto caricaturale, si è quasi da subito creata anche una discreta folla di detrattori. Ma i fatti parlano chiaro e a livello di musica live e in studio, si è in uno stato di grazia, ed ecco che per ingannare l’attesa per un quarto lavoro, esce un piccolo Ep davvero sfizioso e che consiglio senza esitazione: “
Thrall – Demonsweatlive”.
Tre inediti in studio, quattro canzoni ripescate da alcuni live fatti, più un’altra piccola, ma sfiziosa, sorpresa completano il tutto.
Esatto, tutto qui, niente di più, niente di meno; questo mini album è diviso idealmente in due parti: la prima con il nostro amico “
Thrall”è quella che ci presenta i tre inediti, composti da un Hard Blues così caldo e avvolgente da risultare bollente, con una cover di
Elvis Presley (“
Trouble”) a dir poco incendiaria! La seconda parte invece, la seducente e peccaminosa “
Demonsweatlive” sono canzoni pescate dal vivo: “
Snakes Of Christ”, “
Am I Demon”, “
Sistinas” e “
Mother” sono lì non solo per farci capire che sono delle canzoni assolutamente superbe, ma pure per aggiungere ulteriore gloria alla line up classica dei
Danzig con delle esibizioni live molto intense. Da ricordare che la ghost track “
Mother ’93” divenne una hit tanto insperata, quanto inattesa su
MTV.
Il quarto album dei
Danzig (1994, annata nella quale
Rubin produsse il discusso “
Divine Intervention” degli
Slayer e uscì un altro gioiello del Doom americano: “
Be Forewarned” dei
Pentagram) ha il coraggio di fare quello che non si è riusciti (e voluto?) fare nel precedente lavoro: dare una vera rinfrescata al sound del gruppo.
Ecco quindi che il Doom Metal di “
Danzig 4P” è molto moderno e abbandona quasi totalmente le atmosfere antiche che hanno fortemente caratterizzato i predecessori; il Blues, gli accenni Folk/Country vengono completamente accantonati per dar spazio ad atmosfere Gothic ed influenze Industrial, che in certi brani sono molto forti ed evidenti.
L’anda generale dell’album è più pigra e dilatata, le atmosfere sono sempre meno rassicuranti, il sound ha una virata più quadrata e spigolosa rispetto al passato.
“
Sadistikal” sembra un mantra ultraterreno, abbiamo l’invocazione esoterica di “
Invocation” ben nascosta, in “
Brand New God” il Metal selvaggio si impossessa delle note, dandole una frenesia che in questi lidi raramente troveremo, la catchy “
Cantspeak” potrebbe stare benissimo su un disco dei
Nine Inch Nails e nessuno se ne sarebbe lamentato, “
Bringer Of Death” si segnala per le melodie orientaleggianti che donano un grande fascino a queste atmosfere dannate oltre a rappresentare un piccolo colpo di genio, “
I Don’t Mind The Pain”, “
Going Down To Die”, “
Little Whip” sono un ritorno a sonorità più classiche seppur rinverdite da questa veste più pesante e moderna, mentre “
Son Of The Morning Star” sembra provenire direttamente dai primi
Black Sabbath ma contestualizzandoli.
Davvero tanta carne al fuoco in questo lavoro discografico, che seppur mantenendo non pochi punti di contatto con il marchio di fabbrica fatto dai
nostri bikers maledetti, comunque lo traghetta verso il futuro in maniera molto buona… anche se l’evoluzione non solo sarà una involuzione, ma un incubo ad occhi aperti.
Spesso un’artista ha un declino qualitativo lento e costante dopo il suo periodo d’oro, ma a volte capita invece, che il periodo più bello venga interrotto in maniera brusca e traumatica: ecco quello dei
Danzig fa parte – purtroppo – del secondo caso.
I
prodi bardi di questo sbilenco e bislacco Doom/Blues litigano tutti con il nerboruto cantante che uno ad uno gli caccia via dal gruppo senza tanti complimenti e visto che già c’era si arriva al litigio con
Rick Rubin e anch’esso viene defenestrato senza troppi ripensamenti: da questo momento in poi, i
Danzig diventeranno in tutto e per tutto un progetto solista del singer che ne diventa il padrone assoluto. Il risultato di tutto questo sfacelo è il quinto “
Danzig V Blackacidevil” nel quale tutto quanto fatto in precedenza viene buttato via per far spazio ad una svolta completamente all’insegna dell’Industrial Metal assolutamente mediocre.
Glenn tra l’altro è stato anche abbastanza sfortunato visto che per colpa di una mossa sbagliata, di colpo il successo che aveva duramente guadagnato riuscì a perderlo quasi completamente e per risalire la china ci mise parecchio, anche se per sua – e nostra – sfortuna non si è mai risollevato del tutto da questo disastro e da allora diciamolo: continua a vivacchiare grazie al suo prestigioso passato. Un tonfo questo più unico che raro.
“
Danzig 6.66 Satan’s Child” è un parziale ritorno all’Hard Rock iniziale, seppur risulti pieno zeppo di influenze Industrial Metal, con uno stile molto poco personale che ricorda fortemente
Rob Zombie.
Chitarre potenti e piene zeppe d’energia, dal sapore molto alternativo, oltre alle tastiere a volte troppo invasive e che fanno perdere vigore al sound, questo perché le chitarre vengono soffocate da esse; in tutto questo
Glenn non dà una buona prova di sé, dando sfoggio di una prova vocale molto piatta e stanca, con ben pochi sussulti.
Canzoni molto altalenanti quelle presenti in questo lavoro poco più che sufficiente: la title track seppur non sia un capolavoro ha un gran tiro ed un ritornello che fa strage in sede live, la ballad “
Thirteen” (scritta in origine per
Johnny Cash e che ne fece un ottimo rifacimento acustico e ripresa per una evidente mancanza di idee) è un ottimo sigillo posto alla fine, “
Apokalips” ha quel mood squisitamente Doom Metal mentre “
Five Finger Crawl” fa partire discretamente il disco. Per il resto questo parto discografico si salva poco, anche se il livello è superiore al precedente disastro discografico, non che ci volesse molto in realtà, ma si sa che chi si accontenta gode.
“
Danzig 777 I Luciferi” è un ulteriore passo nella direzione di ritorno alle origini con un Hard Rock dalle tinte fosche e sabbathiane, con chitarre deliziosamente raw. Anche qui purtroppo
Danzig risulta svociato e ciò si riflette sia sul carisma che sulla personalità generale della proposta musicale, seppur la sua prestazione risulti meno piatta rispetto a “
Satan’s Child”. Nonostante una certa ripetitività comunque il lavoro ha i suoi bei momenti e alcuni pezzi di un certo valore, come la potente “
Wicked Pussycat”, la grooveggiante “
God Of Light”, la terremotante “
Kiss The Skull” o la moderna “
Halo Goddess Bone”. Altra scelta poco comprensibile (ma forse no visto l’ego del singer) sono le chitarre che in fase di missaggio risultano essere in secondo piano, depotenziate, facendo perdere un certo mordente alla proposta, mentre una nota positiva sono le influenze del metal moderno anche se queste perdono di incisività per colpa di un lavoro al mixer discutibile. Altro peccato veniale sono alcune aperture melodiche mediocri, mentre il duo basso e batteria fa il suo sporco lavoro in maniera semplice ma azzeccata, tutto ciò infiocchetta un lavoro quantomeno accettabile, dopo un periodo non certamente felice.
Pure il live album ufficiale (escludendo quindi quel bootleg semi ufficiale dal suono tutto impastato di “
Not Of This World” dell’89) è un lavoro dalla doppia faccia: la prima, del primo dischetto che altro non è che una raccolta di live fatti nel ’92 e nel ’94 piena di ottime canzoni fatte dalla line up classica, con esibizioni belle cariche di energia, con una dinamicità ed un tiro di gran livello; mentre il secondo dischetto, che riprende il tour di “
Satan’s Child” è decisamente mediocre tra un numero nettamente inferiore di pezzi memorabili, perfomances decisamente più stanche da parte del singer, con la band al suo supporto che si limita a fare il minimo sindacale sul palco e ad aggiungere ulteriore benzina sul fuoco delle critiche ci pensa pure una resa sonora al limite del bootleg che mette una pietra tombale sulla seconda metà di questo lavoro.
“
Circles Of Snakes” continua il discorso del precedente e lo fa in maniera decisamente superiore… Disco che accantona definitivamente i pochi vagiti di rimasugli Industrial rimasti, per dar vita a quello che è a conti fatto il disco più pesante e moderno della band americana, con una smaccata vena Groove/Alternative Metal che va ad annidarsi all’interno di questo Doom Metal così sibillino.
Chitarre così grasse e pesanti avrebbero meritato un missaggio migliore ed un posto in primo piano per rendere il sound ancor più roccioso e vigoroso, questo dettaglio avrebbe sicuramente elevato ancor di più il disco. Comunque dopo tanto tempo un lavoro finalmente convincente: le sonorità tornano a essere ruvide e secche, le strutture sono ridotte all’osso, il rifferama chitarristico dopo tanto tempo torna ad essere incisivo e le vocals seppur siano distanti da quella potenza e strafottenza degli esordi sono comunque abbastanza riuscite, sicuramente di ben altro livello rispetto alle ultime prove discografiche!
Nel 2004
Glenn, insieme al buon
Tommy Victor (ascia dei
Prong) dopo tanto, troppo tempo, ci dà un lavoro di un certo peso: non tutto è oro quel che luccica, alcune canzoni sarebbe stato meglio scartarle o svilupparle meglio, oltre ad una maggiore attenzione in fase di missaggio e anche una maggior fantasia compositiva male non avrebbe fatto, ma alla fine il lavoro si può definire di discreto livello.
Nel 2007, dopo anni decisamente bui passati a vivacchiare nel passato con dischi mediocri se non disastrosi (“
Blackacidevil” o “
Satan’s Child”) o altalenanti (“
I Luciferi”) il buon
Danzig tira fuori dal cassetto tutte le canzoni (in un lasso temporale che va dall’88 al 2004) che per un motivo o per un altro furono scartate a suo tempo e le racchiude in una succosa raccolta: “
The Lost Tracks Of Danzig”. Operazione molto gustosa quella messa in atto, con tante chicche rimaste chiuse in un cassetto ora scoperchiato, una grafica accattivante ed un pacchetto veramente bello, con un booklet fumettistico davvero sfizioso, ricco di immagini ed annotazioni varie che tanta soddisfazione danno ai collezionisti. Ma parliamo della musica che ce ne sta davvero tanta con le 26 canzoni riportate alla luce in quello che si è dimostrato una sorta di vaso di pandora musicale. Nel primo dischetto tra le tredici canzoni si segnalano sicuramente le prime due tracce che provengono addirittura dai tempi lontani e pagani dei
Samhain, l’opener che ci fa riscoprire la verve e l’energia del debutto e mi stupisco di come a suo tempo un simile gioiello di Rock maleducato sia stato scartato.
Molto positive pure le altre canzoni rimaste inedite nel periodo
Rick Rubin: “
When Death Had No Name” rifatta nel 1992 è sicuramente più matura e le campane plumbee poste in coda alla canzone sono il classico guizzo, quel particolare che eleva un pezzo al di sopra della media, la cover dei
T. Rex (gruppo Glam Rock degli anni ’70) “
Buick McKane” ci ricorda che i
Danzig non solo erano una macchina da guerra efficacissima, ma che erano pure dei grandi interpreti ed ecco che un classico del Glam Rock viene rinverdito dai volumi e dalla potenza dell’Heavy Metal. “
You Should Be Dying”, “Angel Of The 7th Dawn” riaccendono la fiamma nera di questo Blues Rock esoterico, “
Satan’s Crucifiction”, “
The Mandrake’s City” e “
White Devil Rise” sono i semi che non germogliarono all’epoca di “
Danzig IVP” ma che fruttarono tredici anni dopo: tre ottimi pezzi nella quale svetta il Metal moderno ma allo stesso tempo antico e primordiale di “
White Devil Rise” che è uno dei culmini di questa raccolta.
Inutile girarci troppo intorno: qui abbiamo un
Glenn Danzig come non lo si sentiva da tanto, troppo tempo, con l’ugola in gran spolvero, che evoca potenza e drammaticità, cafonaggine Rock insieme ad atmosfere lisergiche intrinseche di questi lidi oscuri ed evocativi…
“
Blackacidevil”: che razza di pasticcio che combinò Glenn all’epoca del quinto album! “
Come To Silver” viene qui ripresentata in chiave acustica:
Danzig e
Jerry Cantrell (hhitarrista, hantante e songwriter degli
Alice In Chains, la band più vicina al Metal di tutta la scena Grunge di Seattle) ci presentano un’eccellente rifacimento acustico nel quale
Glenn potrebbe trarre sicuramente ispirazione per un prossimo album in studio, chissà che l’acustico non porti in futuro qualcosa di positivo. Comunque oltre all’ottima perfomance di
Glenn alla voce e all’accompagnamento minimale ma azzeccato di Cantrell, all’epoca in alcune interviste
Danzig aveva detto esplicitamente che i due avrebbero fatto un disco insieme: peccato che ancora oggi, di questa fantomatica collaborazione non sia ancora uscito niente; il primo disco si conclude con tre canzoni che non presero parte al quinto disastro discografico e forse fu meglio così visto che ora possono risplendere di luce propria, specialmente il rifacimenti di “
Come To Silver”.
Dopo tutta quest’abbondanza ad aspettarci per una vera e propria indigestione musicale arriva pure il secondo disco: meno brillante del primo, ma anch’esso ricco di perle. I primi tre pezzi ci ridanno un
Danzig divagare con quel Rock/Blues dannato e maledetto nel quale svetta quella perla Dark/Blues di “
Crawl Across Your Killing Floor” che ci ricorda come nei lenti
Danzig sia un’artista molto intenso ed emotivo, cosa alquanto sorprendente visti i suoi primi anni di carriera. Dopo è il turno di altre due cover e visti i risultati la citazione è d’obbligo: i
Germs con la catchy “
Caught In My Eye” e la potente “
Cat People” di
David Bowie vengono stravolte e trasformate in classici dei
Danzig. Dal periodo “
Danzig VII I Luciferi” si distingue l’ottima “
Bound By Blood” e il Dark/Metal di”
Who Claims The Soulless”; poi alla mischia vengono aggiunte due canzoni già edite in passato ma con un mix diverso che in tutta franchezza sono completamente fastidiose e conquistano la palma di punti più bassi della raccolta. Da “
Cirlces of Snakes” invece si segnalano l’ossessiva “
Soul Eater“ che ha una squisita attitudine live e il garage sound di “
Lady Lucifera” con il suo sbilenco e pesante Blues Metal malefico.
Una raccolta ricca e abbondante, uno scrigno nascosto ricco di gioielli che nel 2007 venero riportati alla luce: a parte poche zone d’ombra, abbiamo tanto materiale di che gioire e che riporta nei binari giusti dopo tanto tempo la band. Una raccolta di gran livello per più motivi: per aver messo sul piatto un sacco di inediti di gran livello, oltre ad aver fatto vedere l’evoluzione del sound dei
Danzig avvenuto tra il 1988 e il 2004. Un’operazione da prendere come esempio nel mare magnum delle raccolte inutili e fatte alla meno peggio giusto per racimolare due spicci con poco sforzo.
Proseguiamo il nostro excursus di questo particolare
cantore delle tenebre alle prese con una fase fantozziana delle sua carriera: fase questa che sembrava conclusa con il mastodontico “
The Lost Tracks Of Danzig” e che “
Deth Red Sabaoth” dava ancor di più questa conclusione. A ben sei anni di distanza dall’ultimo lavoro, nel 2010 si rimette in gioco e dopo tanto tempo il responso della critica è abbastanza unanime e positivo al riguardo: questo giro riesce a fare un disco finalmente convincente e degno della sua caratura, con un trait d’union tra le sonorità Hard Blues/Doom dei primi tre album e la potenza e modernità toccate con “
777 I Luciferi” e “
Circles Of Snakes”, riuscendo così a non fare uno sterile e scialbo revival.
Un lavoro accolto bene in linea di massima dalla stampa e critica di settore, così come dai fans che sono rimasti fedeli al nostro ex
devilocker e seppur manchi quella cura dei particolari che c’era ai tempi di
Rubin e quei piccoli lampi di genio disseminati qua e là, c’è di che gioire tra i riffs taglienti e i rallentamenti sabbathiani di “
Hammer Of The Gods”, “
Rebel Spirits” e “
Black Candy” sono un Heavy/Doom secco e da manuale, un manuale nel quale lo scriba
Glenn Danzig torna in buona forma a livello vocale con prestazioni potenti. “
On A Wicked Night” è probabilmente uno dei pezzi migliori, un lento semi acustico di grande caratura, molto emotivo e che potrebbe essere preso in prestito da un qualsiasi songwriter Folk/Country americano, ma si sa, pure nei periodi più bui,
Anzalone nei lenti acustici e semi acustici è sempre riuscito a dare emozioni e barlumi di speranza dove invece sembrava tutto perduto; “
Ju Ju Bone” è un Hard Rock molto personale, cosa che spesso manca negli ultimi anni, mentre “
Night Star Hel” è nera come la pece ed ha un sapore molto american sound.
Un suono a volte vagamente da garage dà alle canzoni un gusto particolare con quei suoni un po’ impastati, al di là di pochi filler e di una registrazione particolare (che può piacere o meno, ma finalmente le chitarre hanno il giusto peso e graffiano come dovrebbero) questo lavoro è un bel colpo di coda da parte di
Glenn che piazza un poderoso centro con un disco oscuro e pesante.
Dopo il buon “
Deth Red Sabaoth” che rappresentò senza dubbio un segnale più che positivo abbiamo dovuto aspettare ben cinque anni per un nuovo lavoro targato
Danzig ed ecco che nel 2015 con una peccaminosa copertina che vede la bella presenza di
Kayden Kross, sicuramente molto apprezzata dal pubblico maschile, esce “
Skeletons”. Come abbiamo detto a volte su queste righe quella dell’album di cover fatto da un’artista di un certo successo per semplice omaggio, per divertimento estemporaneo o per tirare il fiato in un periodo nel quale le idee scarseggiano sembra essere una regola non scritta nel mondo del music business.
Peccato che, in questo caso il risultato è da mani nei capelli: non solo le varie cover proposte hanno poco carattere per via di un sound piatto e generico, non solo
Danzig torna a farci preoccupare per lo stato carente della sua voce, ma anche la registrazione troppo casalinga e il missaggio posticcio che cambia di canzone in canzone, danno vita ad un lavoro disomogeneo e slegato, mi fa chiedere come sia possibile che un’artista di tale caratura (e con un contratto con la
Nuclear Blast) abbia il coraggio di fare uscire un prodotto del genere.
A parte le graziose donzelle presenti nel video di “
N.I.B.” dei
Black Sabbath e i nomi storici contemplati da
Anzalone (
ZZ Top, Aerosmith,
Elvis Presley insieme ad un nugolo di altri artisti Rock ‘N Roll/Garage Rock ben meno noti e lontani nel tempo) c’è ben poco da salvare in tale platter. Peccato.
Purtroppo quella di "
Skeletons" non è stato un semplice colpo di sfortuna… nel 2017 esce “
Black Laden Crown”, un lavoro evidentemente fatto in fretta e furia ed un budget ridotto all’osso. Non ci possono essere altre spiegazioni quando troviamo un lavoro nel quale a parte il bel singolo "
Last Ride” (un Blues dannato e luciferino che seppur non faccia nulla di miracoloso ci ricorda il
Danzig che fu) tutto il resto è semplicemente da dimenticare.
Chi non ha ascoltato il lavoro in questione si chiederà i motivi di questa debaclè: innanzitutto si ripropongono gli evidenti problemi di registrazione e missaggio avuti in “
Skeketons” che rendono il tutto attaccato con lo sputo; oltre a ciò il guitarwork è in secondo piano e macina riffs che sembrano un copia e incolla fatto senza troppa convinzione, con riferimenti al passato che sfociano in un auto citazionismo che non si sa quando sconfina nell’auto plagio dei lavori a cavallo tra gli ’80s e i ’90s. Come se tutto questo già non fosse sufficiente abbiamo un
Glenn Danzig ai minimi storici dietro al microfono e i fratelli del ritmo fanno parti a dir poco scolastiche: così tanto semplici e ripetitive da risultare estenuanti, dando quindi un’ulteriore senso di monotonia al tutto.
Davvero un gran brutto ritorno alle origini quello fatto con questo pessimo lavoro. Adesso Anzalone è perso tra fumetti e film, sue grandi passioni, ma nel mentre, purtroppo ha fatto uscire un disco di cover tutto dedicato ad Elvis Presley.
"
Danzig Sings Elvis" del 2020 va a completare una tripletta fecale di rara bruttura tra i vari problemi già abbondantemente citati nei due album precedenti ed una serie di ballad davvero soporifere ad aggiungere ulteriore onta al tutto.
Un sogno nel cassetto del Dark Elvis dell’Heavy Metal americano che purtroppo è stato un autentico disastro.
Il cantore di lucifero quando meno te lo aspetti risorge inaspettatamente e chissà che non avvenga anche questa volta in un futuro non troppo lontano...