The Soft Machine, ovvero la
Macchina Morbida. Dal titolo di un romanzo, quattro sbarbatelli nella seconda metà degli anni ’60 presero spunto per chiamare la band che da lì a poco avrebbero fondato ed è stato sicuramente un nome calzante e col senno di poi pure profetico: dalla Psichedelia giocosa e dadaista delle prime pubblicazioni (“
Volume Two”) si passa alla sperimentazione tra Jazz, minimalismo e Psichedelia d’ampio respiro del terzo album, per poi abbracciare con forza e convinzione il turbinio Jazz Rock e Fusion (“
Seven”), che tanta fortuna ha avuto negli anni ’70, specialmente negli Stati Uniti D’America.
Sembra fantascienza in questo 2024 così frastagliato e dispersivo a livello musicale, ma ai tempi, major come la
Columbia facevano a cazzotti per accaparrarsi gente come
Santana,
Mahavishnu Orchestra o
Al Di Meola.
Ma torniamo ai
Soft Machine (che dopo i primi due album tolsero il suffisso “The”)… loro vengono dalla Terra d’Albione, sono tra le punte di diamante della scena di Canterbury (
Gong,
Caravan,
Hatfield And The North,
Henry Cow,
Khan,
National Health,
Gilgamesh…), ovvero la scena più bislacca e stralunata di tutto il Progressive che tanto guardava a varie forze del Jazz, della Psichedelia e delle Avanguardie musicali del periodo. La loro storia più che essere legata ai grandi della Fusion statunitense (come gli scintillanti
Weather Report), è legata al Jazz Rock europeo, soprattutto ai conterranei
Nucleus (ad una certa si può parlare di “
Nucleus 2.0” visti i vari transfughi dalla band fautrice di “
Elastic Rock”) e, in misura minore i nostrani
Perigeo dal suono meno freddo e più mediterraneo.
Dopo una serie di album sempre di livello (sì, c’è vita anche dopo “
Third”) e checché se ne dica pure imprevedibili, con un mesto “
The Land of Cockaine” dell’81 ed una serie di live conclusasi nell’84, il gruppo si sciolse. Più avanti si formarono formazioni satelliti di valore discutibile e nel 2015 si tornò a quel nome prestigioso.
Nel 2015 quindi ha avvio una delle “reunion riuscite” (come che so, quella dei
Cirith Ungol, piuttosto che quella dei
Blitzkrieg, dei
Satan, dei
Manilla Road o rimpolpate voi questa lista con questa o quella band che secondo il vostro gusto e parere ha fatto una reunion riuscita) con tanti concerti da parte di musicisti con una certa sulle spalle. Nel 2018, a distanza di qualcosa come trentasette anni dall’ultima pubblicazione in studio (non esattamente esaltante, ma nemmeno quel cagatone atomico dipinto dai più disfattisti) e a ben cinquant’anni dall’esordio patafisico, arriva “
Hidden Details” e no, non è soltanto un album decente. Si riparte per buona parte dalla formazione di “
Softs” (1976) con il trio composto da
John Etheridge, Roy Babbington e
John Marshall, al quale si aggiunge
Theo Travis (tra le tante esperienze fatte, i già citati
Gong). Il suono del disco è limpido, sfavillante, ma questo non sacrifica il vigore che dev’esserci in ogni sottogenere del Rock e
Jon Hiseman (
Colosseum, morto prima della pubblicazione dell’album) riuscì a dare questo equilibrio, dando luce ai mille colori del sound di questi
Softs, quasi ad essere il “quinto elemento” della band.
La Fusion qui presente ripesca due classici da un lontano passato con rifacimenti presi dal succitato “
Softs” e da “
Third”, mentre per il resto si tocca lidi Jazz Rock con un basso pulsante e le tastiere liquide atte a creare un tappetto sonoro ipnotico. In queste note volatili c’è un sentore orientale (l’eterea carezza “
Breathe”), la musica Ambient si prende qualche spazio gentilmente concesso, mentre a volte l’ago della bilancia pende più sul Jazz (“
Life On Bridges”, “
Flight Of The Jett”), altre invece una ruspante chitarra va a farla virare verso il Rock (“
One Glove”, “
Hidden Details”) e chiudendo gli occhi, un leggero sentore Psichedelico traspare di tanto in tanto.
Un ritorno inatteso e insperato, con l’album di ritorno buona parte di critica e pubblico sono felici e soddisfatti del livello qualitativo delle tredici canzoni ed ecco che la
Macchina Morbida vola di nuovo in giro per il mondo tra tour, concerti e festival. A proposito di testimonianze live, i
Soft Machine sono una di quelle band che hanno un certo numero di Live Album, magari non si arriva a toccare la mole quantitativa raggiunta da artisti come
Frank Zappa o
King Crimson, ma la situazione comincia a farsi dispersiva, anche a fronte di ottimi recuperi d’archivio del passato (come “
Facelift (France & Holland)” del 2022 o “
The Dutch Lesson” del 2023).
Nel 2020 esce quindi “
Live at the Baked Potato” dove si dà parecchio spazio all’ultimo parto discografico, più certe chicche davvero gustose, una su tutte: la prima parte (spettacolare!) di “
Hazard Profile”. I fiati fanno volare con la fantasia e l’immaginazione e, soprattutto, menzione speciale per
John Marshall che si dimostra essere un musicista non solo di grande tecnica, ma pure di gusto sopraffino, dando un’incredibile musicalità e dinamicità ad uno strumento come la batteria.
E a proposito dello storico batterista ormai presente dai tempi di “
Fifth” (1972, ci suonò sul lato b), l’ultimo album in studio “
Other Doors” uscito nel 2023 è stato il suo testamento sonoro prima di ritirarsi. Mentre l’altro fratello del ritmo, il bassista
Roy Babbington, lasciò il gruppo nel 2021, ma mette il suo zampino in un paio di composizioni. A cinque anni di distanza il suono del gruppo si fa più vellutato e volatile. Meno Rock e più Psichedelico se vogliamo, seppur si rimanga dentro i confini (molto labili in realtà…) della musica Fusion.
I rifacimenti sono sempre un azzardo e nel precedente lavoro, più di qualcuno storse il naso di fronte ad essi, ma mi sento di dire che “
Penny Hitch” (da “
Seven” del 1973) grazie alla chitarra di
Etheridge in bilico tra vibes dismesse e sferzante Rock d’annata, eleva l’originale, mentre “
Joy of a Toy” (presa dall’esordio del ’68) non avrà l’energia del passato, ma è stata tirata a lucido con una classe cristallina. Se nel predecessore gli umori orientali arrivavano alla fine, ora fanno da apripista ed ecco che un flauto mistico e lontano dialoga con una chitarra dagli echi gilmouriani nella graziosa “
Careless Eyes”.
“
Other Doors” è un manuale su come delle vecchie glorie dovrebbero fare un pezzo di puro Jazz Rock in questi anni. Lo sperimentalismo sonoro ormai quasi non c’è, ma questo non impedisce al Jazz di prendersi il suo spazio per le improvvisazioni come in “
Crooked Usage” o su “
Fell to Earth”. La notturna e sinuosa “
The Stars Apart” sembra continuare la soffusa “
Broken Hill” contenuta in “
Hidden Details”, mentre la conclusiva “
Back in Season” con un po’ di fantasia (quella non deve mai mancare su questi lidi, né da parte dei musicisti, né da quella degli ascoltatori!) sembra riprendere per mano e continuare “
Out Of Season” del 1976.
Molto probabile che “
Other Doors” sia l’ultimo album in studio di questa band, qualche piccolo calo nei due dischi di cui ho scritto queste poche righe, c’è sicuramente (ad esempio ho trovato inconsistenti certi esercizi di stile come “
Whisper Back” o “
Now! Is the Time”), ma è il classico caso nel quale si parla di piccoli nei, vista la bontà del resto. Però la mia speranza è che come successo con “
Hidden Details”, pure con “
Other Doors” venga pubblicato un Live Album ad esso dedicato e diciamolo chiaramente: un disco di tale livello se la meriterebbe tutta una bella testimonianza live del tour di supporto ad esso! Poi se pensiamo ai musicisti coinvolti…
Chissà come finirà questo lungo viaggio, ma la certezza è che la Soft Machine ha fatto un viaggio ricco di stimoli e di grande interesse fino alla fine.
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