Finalmente anche l'Italia ha la possibilità di vedere un concerto dei
Gotthard come si deve: non saranno le mega arene svizzere o tedesche, ma il Live Club di Trezzo d'Adda, totalmente rimodernato e ingrandito rispetto a qualche anno fa, è una venue abbastanza capiente e soprattutto dotata di uno stage di grandi dimensioni, cosa che consente alla band di utilizzare il suo impianto scenografico. Aprono i
Clarvoyants, freschi autori di un disco, “World to the wise”, che tanto è piaciuto qui da noi, e che li ha improvvisamente fatti diventare una delle realtà italiane più interessanti di questo periodo. Mai tanti complimenti mi sono sembrati fuori luogo. I cinque stasera suonano mosci e slegati, penalizzati da suoni confusi e da una voce poco potente e spesso imprecisa. Non aiutano nemmeno i brani del debut album, troppo pedissequamente ricalcanti il repertorio dei Maiden e privi di qualsiasi intuizione che possa renderli interessanti al primo ascolto. Il risultato è una mezz'ora di noia totale, nonché la dimostrazione che non basta essere una valida tribute band per poter combinare qualcosa di buono su disco. Sono stato troppo duro? Può darsi, ma sta di fatto che la voglia di ascoltarmi con più calma il loro lavoro proprio non mi è venuta.
Cambio palco rapidissimo (per fortuna, visto che sono già le ventidue) ed ecco l'intro dei
Gotthard. Forse “Shangri La”, opener del nuovissimo “Need to believe”, non era il brano più adatto per battezzare lo show e allora ecco la potente cavalcata di “Unspoken words”, seguita a ruota da “Gone too far”, tratta dal precedente “Domino Effect”. Il tiro non si discute, i cinque sono potenti e compatti come sempre, ma purtroppo i suoni non sono granché: troppo basse le chitarre, troppo alti basso e tastiera. Un difetto che purtroppo rimarrà tale per tutta la durata del concerto, impedendoci di godere appieno della carica devastante con la quale gli svizzeri incendiano il palco come loro solito. Il terzo pezzo, dopo i saluti di rito, è l'immancabile “Top of the world”, che provoca la solita baraonda tra il pubblico. Setlist ancora immobile purtroppo, ma a quanto pare nessuno ci fa caso. La title track del nuovo album riscuote consensi a non finire, risultando decisamente molto più carica della sua versione in studio. E' poi la volta di un breve solo di Leo Leoni, seguito da un breve siparietto tra lui e Steve Lee, con il cantante che si esalta a riprodurre con la voce le note suonate sulla chitarra dal suo compare. Esilarante, soprattutto per lo scambio di battute tra i due, che dà l'idea di uno sketch preparato in anticipo ma comunque efficace. Dopodiché Steve annuncia di avere “due cose dure nella tasca dei pantaloni” (altre risate) e tira fuori un'armonica: non serve essere veterani dei concerti della band per sapere che sta per partire “Sister moon”. Ancora una volta, esecuzione perfetta e tanto, tanto divertimento. “Hush” continua a tenere alta l'atmosfera festaiola, prima che con la nuova “Right from wrong” i suoni si induriscano notevolmente. Purtroppo quello che è il mio brano preferito da “Need to believe” viene parzialmente rovinato dal già citato problema dei suoni, oltre che dalla mancanza di tutte quelle armonie vocali presenti nella versione in studio. Proprio questo, verificatosi anche negli altri pezzi, è apparso essere il problema più grave della resa live di “Need to believe”: le numerosissime sovraincisioni operate da Steve Lee sono funzionali alla bellezza di ogni singolo pezzo, ma non potendo essere riprodotte in toto, vanno inevitabilmente a condizionare le interpretazioni di ogni singolo brano. Al di là di questo inconveniente, è indubbio comunque che anche gli ultimi arrivati nel repertorio Gotthard non sfigurino per niente a fianco del materiale più datato. E' ancora più evidente con la splendida “Unconditional Faith”, qui resa in modo un po più robusto, ma con una dodici corde acustica di Leo Leoni a impreziosire il tutto.
A questo punto c'è un break, e due scabelli foderati di velluto rosso (“Che fanno molto bordello”, dice uno Steve sempre più su di giri) vengono portati al centro dello stage. Pare essere giunto il momento di “One life, one soul”, e invece questa volta rimarremo davvero stupiti. Steve annuncia che i due vogliono suonare per qualche minuto in maniera più raccolta, accontentando, se possibile, qualche richiesta del pubblico. Che ascoltassero o meno le grida delle prime file poco importa. Fatto sta che quello che segue è il momento più emozionante dell'intero show, che da solo è valso il prezzo del biglietto. Vengono infatti proposte versioni per voce e chitarra, brevi ma straordinariamente intense, di “In the name”, “Heaven”, “Lonely people” e “Father is that enough” (queste ultime due assenti da tempo immemore dalle setlist della band). Assolutamente toccante è poi l'interpretazione di Steve Lee, che raggiunge forse l'apice assoluto delle sue capacità canore. Verrebbe voglia che continuassero così fino alla fine, ma purtroppo lo show deve continuare. Via allora con “Shangri-La” (bellissima come su disco) e con la potente “I don't mind”, che dimostrano come il nuovo album piaccia e come, anche se logicamente ha bisogno ancora di essere assimilato dal pubblico. “The oscar goes to...” permette a Steve di proclamare quello milanese come il pubblico migliore (il solito siparietto di ogni sera), mentre “Now” è una perla inattesa e graditissima, mai suonata nel corso del precedente tour. Non è passato molto tempo, ma evidentemente per i cinque è abbastanza, dato che le note di “Lift U up” sono il segno che è il momento di andare a casa. Saluti, presentazione del gruppo e inchini vari sono talmente marcati da far credere che sia davvero finita qui. Invece, acclamati da un locale strapieno ed entusiasta, i nostri fanno ritorno sulle note di “I know you know”, impegnativo brano da “Need to believe” che poteva forse essere evitato, soprattutto a questo punto della scaletta. Ne vorremmo ancora tre o quattro, ma stavolta è davvero finita: giusto un rapido congedo con la sempre dannatamente efficace “Anytime anywhere” e poi tutti a casa veramente. Che dire di questa nuovo spettacolo dei Gotthard? La possibilità di vederli finalmente su un palco decente, con luci e scenografie al posto giusto (anche se sempre in dimensioni ridotte rispetto alla Svizzera) ha sicuramente giovato. La performance, nonostante i suoni non fossero eccelsi, è stata come sempre da capogiro, con Steve Lee sempre più in lizza per il posto di miglior cantante hard rock/metal oggi in attività. Potenti e irresistibili, i Gotthard sono sempre una garanzia quando si tratta di mettere a ferro e fuoco un palco. Questi i punti positivi.
Quelli negativi vanno invece cercati nella cronica mancanza di innovazione all'interno di una scaletta che tour dopo tour è sempre più uguale a se stessa (tanti i pezzi spariti, ma pochissime le aggiunte, con il medley acustico che è stato un capolavoro ma che da solo non è bastato), dando al loro show l'impressione di essere molto (forse troppo) studiato a tavolino, con la conseguente perdita di quella spontaneità che dovrebbe essere propria di ogni concerto rock. E poi la durata: il Lipservice tour aveva 20 brani in scaletta, quello di Domino Effect 18, questo appena 15 (break acustico escluso), per una durata di appena 90 minuti. Che gli anni passino anche per loro? Non sembrerebbe, a giudicare dall'energia con cui suonano!
Detto questo, siamo sicuri che quasi nessuno sarà andato via deluso e questo è totalmente legittimo: volente o nolente, trovare una band come loro è praticamente impossibile. Mi pare che questo possa bastare...
Setlist:Unspoken words
Gone too far
Top of the world
Need to believe
Sister moon
Hush
Right from wrong
Unconditional faith
Acoustic break (In the name, Heaven, Lonely people, Father is that enough)
Shangri-La
I don't mind
The oscar goes to...
Now
Lift U up
I know you know
Anytime anywhere