La giornata del 28, sotto un sole che spacca le pietre e che non darà tregua fino a sera, inizia subito con un intoppo: il ritardo nell’apertura della cassa accrediti, infatti, ci costringe a perdere completamente l’esibizione dei
Black Dahlia Murder. Anche da fuori, comunque, non è stato difficile apprezzare l’impatto sonoro terrificante, sprigionato dalla manciata di brani eseguiti. Una band decisamente da rivedere con più calma e magari in un locale al chiuso!
Gli
Static-X inaugurano il “palco destro” (R-Stage) con una prestazione molto positiva: pur non amando particolarmente il genere, devo ammettere che il nu-metal del quartetto californiano, condito da diversi effetti elettronici, è risultato abbastanza godibile e adatto alla dimensione live. Wayne Static e soci hanno anche beneficiato di suoni potenti e ben bilanciati, che di certo hanno contribuito alla buona resa dello show. Il pubblico, già numeroso nonostante l’orario e il caldo, ha decisamente mostrato il proprio supporto alla band ma si è trattato di ben poco, in confronto alla band successiva…
(Michele Marando)
Attesissimi da molti, i
Cynic si sono presentati con quei toni, delicati ma profondamente evocativi, che tutti potevano aspettarsi. Il loro secondo album “Traced In Air” è stato pubblicato dopo qualcosa come 15 anni dal primo “Focus” ma la magia che questa band è in grado di offrire, è rimasta sempre la stessa: brani complessi, intricati, con improvvise quanto straordinarie variazioni, sono stati splendidamente eseguiti in maniera impeccabile. Le chitarre perfettamente in armonia di Paul Masvidal e Tymon Kruidenier, il drumming funambolico di Sean Reinert e il basso avvolgente di Robin Zielhorst, rappresentano un’entità difficilmente eguagliabile a livello di tecnica e ricercatezza. Certo, la musica dei Cynic non è per nulla facile da ascoltare, è necessaria una certa attenzione per cogliere tutte le sfumature e i lampi di genio che essa incorpora e quindi, è comprensibile che parte del pubblico abbia accolto il gruppo con malcelata insofferenza. Per tutti gli altri, comunque, si è trattato di un’esibizione di primissimo ordine, in cui le nuove canzoni (“Evolutionary Sleeper”, “The Unknown Guest” e “Integral Birth” fra le altre) hanno fatto la propria ottima figura. Ovviamente l’accoglienza migliore è stata riservata alla stupenda “Veil Of Maya” ma si può dire, con assoluta serenità, che i Cynic hanno dimostrato il proprio valore fino in fondo e con eccellente professionalità.
(Michele Marando)
Passare in pochi minuti dalla musica ricercata dei Cynic a quella devastante dei
Napalm Death, è un po’ come passare da una pioggerella primaverile ad un tornado tropicale. Eppure, funziona.
Quando i quattro grinders attaccano una furibonda “Strong-Arm”, immediatamente sotto al palco si scatena un pogo tremendo, che non accennerà a diminuire per tutta la durata dello show. L’adrenalina e la coerenza dei Napalm Death non sono seconde a nessuno e malgrado i suoni impastati e il volume, insolitamente basso, riescono anche stavolta a mettere d’accordo tutti i fans. I nuovi brani, “Diktat” su tutti, si comportano bene ma è con “Suffer The Children” che si inizia a fare davvero sul serio. Barney è un vero animale da palco, un indemoniato che non si ferma nemmeno mezzo secondo, mentre urla nel povero microfono i suoi testi al vetriolo; Mitch Harris e il veterano Shane Embury tormentano i propri strumenti senza un attimo di tregua e il più compassato di tutti, Danny Herrera, è purtroppo anche quello che appare più in difficoltà: evidentemente sta iniziando a sentire il peso degli anni (nonché il proprio, visto che è ingrassato notevolmente negli ultimi tempi), sta di fatto che sui blast beat sembra perdere colpi e non rendere più come una volta. Al di là di questa sbavatura, i Napalm Death rimangono una macchina da guerra e il loro concerto è sempre e comunque un pugno in piena faccia, come ampiamente dimostrato dal ripescaggio degli storici brani-lampo di inizio carriera, come “From Enslavement To Obliteration”, “It’s A M.A.N.S. World”, “Deceiver”, “The Kill” e i geniali due secondi scarsi di “You Suffer”. A chiudere l’esibizione, pensano la classica cover di “Nazi Punks Fuck Off” dei Dead Kennedys (prima della quale Barney invita tutti a mandare a quel paese il nostro presidente del consiglio!) e l’ormai storica “Siege Of Power”. Che dire, concerto breve ma intenso, come sempre!
(Michele Marando)
MastodonAccettata la defezione dei Saxon, ci si posiziona sul palco di destra per la tanto attesa esibizione dei Mastodon. Il gruppo americano, che ha da poco pubblicato il capolavoro “Crack the skye”, è una delle realtà più interessanti emerse dal panorama metal degli ultimi anni. Attaccano con “oblivion”, ed è subito chiaro che si fa sul serio: i quattro suonano splendidamente, e riescono a riprodurre perfettamente le complicate architetture dei brani, aiutati anche dagli ottimi suoni. Stanno onstage per 45 minuti pieni, tirati tutto d'un fiato, senza mai parlare e mostrando solo con qualche gesto rivolto al pubblico la loro soddisfazione. Non ascoltiamo molto, ma brani come “The wolf is loose” o “Capillarian Crest” non si dimenticano tanto facilmente. Su tutte poi svettano i dieci minuti di “The Czar”, un pezzo che con tutti i suoi cambi di tempo e di atmosfera è un po' la summa di quello che oggi sono i Mastodon. Concerto spettacolare, tra i migliori della giornata, e una conferma in più che forse esiste qualche band della nuova generazione in grado di raccogliere lo scettro dei vecchi leoni.
(Luca Franceschini)
TarjaL'ex cantante dei Nightwish si presenta con una band di tutto rispetto, nella quale figurano il batterista Mike Terrana e il chitarrista degli Angra Kiko Loureiro. Ha a disposizione 60 minuti, e li sfrutta alla grande offrendo una prestazione di gran livello, molto coinvolgente, nonostante i brani di “My winter storm” non siano proprio il massimo. Dal vivo però tutto risulta più godibile, merito soprattutto della bravura dei musicisti. La singer sembra poi aver trovato la sua dimensione ideale: molto più a suo agio che nei Nightwish, sciorina sorrisi e baci a destra e a manca, apparendo solare e contenta, ben diversa dalla star spocchiosa di qualche anno fa.
La scaletta è incentrata sul suo ultimo disco, dal quale vengono estratti, tra le altre, “I walk alone”, “Sing for me”, “My little phoenix”, “Minor heaven”. Ovviamente non mancano alcuni ripescaggi dal repertorio Nightwish: le esecuzioni di “Wishmaster” e “Nemo” (che grazie ai fraseggi di Loureiro sembrava un'altra canzone) sono accolte da veri e propri boati. Bella anche la cover di “Poison” di Alice Cooper, che è sembrata funzionare molto di più della versione in studio. Nel finale arriva “Over the hills and faraway” (brano di Gary Moore rifatto spesso anche dai Nightwish) e una potente versione di “Die alive”, assieme a ringraziamenti sentiti e alla promessa di tornare presto. Non l'avremmo mai detto, ma la Tarja solista funziona, se non altro dal vivo. Adesso ci vorrebbe un disco un po' meglio strutturato del precedente, magari facendosi aiutare proprio da Loureiro in fase di songwriting...
(Luca Franceschini)
CarcassChiedo scusa a tutti i fan della band ma questo report non sarà preciso come dovrebbe essere. Comprai “Heartwork” nel lontano 1993, all'indomani della sua uscita e lo apprezzai parecchio; purtroppo però, le sfuriate grind metal dei primi dischi non sono mai stati molto nelle mie corde. Ragion per cui, l'esibizione odierna della band britannica (per la seconda volta consecutiva sul palco del Gods, dopo la reunion dello scorso anno) non mi cattura più di tanto. Nei 75 minuti a loro disposizione Bill Steer e soci hanno comunque trovato il modo di offrire uno spettacolo impeccabile, suonando alla velocità della luce e offrendo pane per i loro denti a tutti gli appassionati. Suonano estratti da tutta la loro discografia, compreso quel “Swan Song” che più di dieci anni fa ne decretò la fine. Chissà che oggi non possa nascere un altro disco da studio: dopo tutto, anche a me che non sono un fan del metal estremo, il concerto di oggi ha messo in chiaro che in questo campo hanno ancora ben pochi rivali.
(Luca Franceschini)
DOWN: suono potente, gran performance nell'esecuzione e forma a dir poco sorprendente per l'allor boss dei Pantera Philp Anselmo.
Davvero sembra non sia mancato nulla al grande show avvenuto sull' L-Stage, preceduto da una sensuale e travolgente Tarja con la sua formazione di tutto rispetto pochi minuti prima.
Scaletta tosta, come piace a loro, con pezzi tratti principalmente sul loro primo Album NOLA e qualche scorsa anche su DOWN III: davvero travolgente il rendering della formazione, molto più espressiva in Live che su CD, sopratutto su alcuni cavalli di battaglia come "Stone The Crow" e "Bury Me In Smoke", eseguita come ultima lasciando spazio ad un accenno solo voce di "Stairway To Heaven" dei Led Zeppelin.
Dicevo, grandissima forma per l'attesissimo vocalist statunitense, dominatore incontrastato di tutto lo Stadio monzese, sempre trasgressivo, disposto a "reinsegnare" gli accordi di "Bury Me In Smoke" al suo chitarrista, strafottente con tutti, specialmente con l'improvvisa comparsa sul palco del tanto criticato francescano Padre Cesare, divertendosi alle sue spalle dopo averlo abbracciato.
Sono sicuramente soddisfatto di questo concerto per quanto concerne a tecnicità e prestazioni dell'intera band, tuttavia mi resta un po' di amaro in bocca mirando un Philip Anselmo che non ha più a che vedere con quello del celebre "Cowboys form Hell".
La presenza stessa dei Down al G.O.M. mostra un legame troppo assillante al nome, alla star perché va di moda e tira più persone: non voglio ovviamente sminuire dei talenti oggettivi, ma è ormai palese (anche dalla scelta di concludere il festival con gli Slipknot) che in Italia a dominare non è il gusto per la bella musica, come potevano essere i Pantera di un tempo, ma il pensiero comune, la presenza a tutti i costi della Rock Star (come ben raffigurato nella presenza dei Motley Crue) e l'economia del "anche se sono teste calde, più pubblico possibile".
Di questo passo non avremo mai un G.O.M. simile al padre di tutti i festival Metal, il celebre Wacken Open Air Fest dove su più di 80 band le, per così dire, "celebrità" son meno di una decina.
(Alberto Pasqualotto)
I
Blind Guardian non sono certo una presenza passeggera al Gods Of Metal, dal momento che vi si sono esibiti più volte nel corso degli anni. Bisogna ammettere che stavolta c’era un po’ di scetticismo, non avendo i tedeschi pubblicato alcun disco nuovo dall’ultima loro apparizione nel 2007 e soprattutto, a causa del fatto che ultimamente la loro scaletta aveva subito ben poche variazioni. Il pubblico comunque c’è e si sente, d’altra parte i Guardian sono uno dei gruppi più amati dagli italiani e anche in questo caso, l’affetto per Hansi Kürsch e soci è più che evidente.
L’apertura spetta ad una “Time Stands Still” un po’ fiacca e priva del giusto mordente ma, per fortuna, la band si riprende subito e i brani successivi si dimostrano di tutt’altro spessore. Oggi viene dato più spazio a canzoni recenti, senza ovviamente dimenticare alcuni graditi tuffi nel passato, per un concerto che, diciamolo subito, si rivela fra i migliori degli ultimi anni. La trascinante “Traveller In Time” e la sempre affascinante “Nightfall” fanno da ponte per un’ottima “Turn The Page” e per “Sacred”, composta per il secondo capitolo del videogioco omonimo. Finalmente, e lo dico con sollievo dopo aver visto questa band per 8 volte in 14 anni, la voce di Hansi si dimostra all’altezza delle aspettative: ci sono ancora i momenti in cui il “bardo” abbassa le tonalità più difficili ma in generale, la voce regge bene e soprattutto, fino alla fine. Il resto della band è una garanzia da sempre, André Olbrich, Marcus Siepen e Frederik Ehmke sono precisi e affidabili, ben coadiuvati dai sue “session” Oliver Holzwarth e Martin Mayer. Dal passato ormai remoto del gruppo, ci viene offerta “Goodbye My Friend”, buon brano ma forse un filo inferiore al resto dell’album da cui è tratto, quel “Tales From The Twilight World” che lanciò i Blind Guardian nell’olimpo del power metal. Dal capolavoro “Nightfall In Middle Earth”, invece, arriva la gradita sorpresa di “Blood Tears”, ottimamente eseguita, mentre il finale è di quelli più classici: “The Bard’s Song”, cantata all’unisono da quasi tutto lo stadio Brianteo, e l’acclamatissima “Mirror Mirror” vanno a concludere uno show davvero positivo, che ci riconsegna un gruppo in piena forma. Ora, non ci resta che sperare in un nuovo album degno del prestigio dei Blind Guardian!
(Michele Marando)
Dream TheaterRitorno dei Dream Theater sul palco del Gods of Metal a due anni dalla indimenticabile esibizione in cui riproposero dal vivo l'intero “Images and Words”, per celebrarne il quindicesimo anniversario. Questa volta non siamo altrettanto fortunati: “Awake” uscì in novembre, per cui saranno altri i fan destinatari a goderselo per intero (se mai decideranno di farlo).
Questa sera si opta per una setlist tradizionale: “Black clouds & Silver linings” è appena uscito e un festival non rappresenta certo la cornice ottimale per testare del nuovo materiale. Meglio dunque puntare su brani più conosciuti dal pubblico: si parte infatti con la prima parte di “In the presence of enemies”, subito seguita da “Beyond this life”. I suoni sono potenti e sufficientemente nitidi, con l'unica eccezione del volume eccessivo del basso di Myung. Per il resto tutto come al solito: presenza scenica alquanto ingessata ma straordinaria precisione esecutiva. I Dream Theater dal vivo li abbiamo visti un sacco di volte, io personalmente li seguo da 14 anni e non so davvero che cosa ci sia da aggiungere. La scelta di suonare brani diversi ogni data aggiunge poi quel brivido di emozione in più che non guasta mai. Questa sera ci va particolarmente bene: dopo una “Constant motion” assolutamente inutile (uno dei brani più brutti mai scritti da Petrucci e soci) arriva una buona versione di “A rite of passage”, unico estratto dal nuovo album, e una splendida “Hollow years”, proposta in un arrangiamento dilatato e leggermente diverso, con un gran solo di Petrucci sul finale.
La seconda parte del concerto è tutta roba per fan di vecchia data: una “Caught in a web” da brividi, impreziosita da una prova vocale da antologia da parte di James La Brie, che questa sera ho trovato più in forma del solito. Quando parte l'attacco di “Erotomania” il Brianteo esplode in un boato (per lo meno quelli che non erano già sotto il palco degli Slipknot!): non so da quanti anni non sentivo questo brano dal vivo! Ma non finisce qui, perché i nostri pensano bene di attaccarci “Voices”, che seppure priva della sua parte centrale, riesce lo stesso ad emozionare. Purtroppo non c'è “The silent man”, ma l'accoppiata “Pull me under”/“Metropolis” è davvero molto di più di quanto potessimo sperare. Bello anche il “duello” a colpi di assoli tra Petrucci e Ruddess sul finale di quest'ultima, un elemento che conferma la propensione di questi ultimi Dream Theater ad arricchire brani stranoti con improvvisazioni e divagazioni gradevolissime.
Saranno anche finiti su disco (in realtà le ultime loro prove non mi sono dispiaciute più di tanto) ma quando ti tirano fuori pezzi così non ce n'è proprio per nessuno. Hanno detto che ad ottobre torneranno dalle nostre parti: io ci sarò di sicuro...
Setlist:
In the presence of enemies (pt. I)
Beyond this life
Constant motion
A rite of passage
Hollow years
Caught in a web
Erotomania
Voices
Pull me under
Metropolis (Luca Franceschini)
Si ringrazia per, il foto report, Alberto Pasqualotto.