Dopo oltre vent’anni, torna a calcare le scene una delle più stimate cult-band del panorama heavy rock/doom: i
Saint Vitus. Ma qui non siamo di fronte a personaggi dei quali si erano magari perse le tracce per tutto questo tempo, bensì a gente rimasta sempre attiva grazie ad un florilegio di progetti personali. Basti citare, tra i tanti, gruppi come Spirit Caravan, Place of Skulls, The Hidden Hand, Debris Inc., che hanno in qualche modo proseguito il discorso musicale iniziato nei primi ’80 dai St.Vitus.
Dunque questa unica data italiana del loro tour è, nel suo piccolo, un vero “evento”, perché parliamo di una formazione seminale per tutto il movimento doom e stoner contemporaneo. Il locale scelto è il Bloom di Mezzago (Mi), uno dei pochi punti di riferimento italiani per chi ama questi specifici filoni rock, visto che negli anni da queste parti è transitata una raffica di ottimi nomi underground quali Colour Haze, Clutch, Roadsaw, Nebula, Demon Cleaner e molti altri.
Il posto è pieno, ed in breve tempo calore ed umidità salgono a livelli di guardia, malgrado fuori impazzi il gelo invernale. A scaldare l’ambiente ha certamente contribuito la buona prova dei pesantissimi Centurions Ghost, dei quali riferirà il buon Ermo.
Ma ora l’attesa è tutta per il quartetto californiano che, appena sale sul palco, evidenzia il principale fattore che li differenzia dai tanti altri ottimi interpreti del genere: il carisma. Osservando persone come Scott “Wino” Weinrich o Dave Chandler, si percepisce subito che per loro la vita estrema, ai margini, “on the road”, non è solo un bel tema per qualche canzone ma una reale condizione esistenziale.
All’inizio tutti gli sguardi sono puntati sul monumentale Wino, l’aspetto vissuto e la voce rugginosa fanno pensare ad un Lemmy del doom-rock. Per l’occasione è tornato al ruolo di “puro” vocalist, così com’era accaduto nell’86 al suo ingresso nel gruppo, in sostituzione di Scott Reagers. Ma anche se ha messo da parte la chitarra, con la quale ci ha deliziato negli ultimi anni, la sua ferale interpretazione di “Living backwards”, che apre lo show, è assolutamente da brividi.
La band è carica, l’umore è alto. Infatti quando un piccolo intoppo tecnico fa ritardare l’inizio di un brano, Weinrich liquida tutto con la pronta battuta: “…ci avete aspettato per venticinque anni, pazientate ancora per cinque minuti…” e giù una bella risata!
Scorrono i pezzi, con quel caratteristico mix di sulfuree cadenze Sabbathiane e grezza potenza heavy rock, che è marchio di fabbrica dei St.Vitus. Si segnalano l’orrorifica “Look behind you”, “Clear windowpane” ed una devastante “White stallions”, tutti frutti del miglior periodo della carriera, tra metà e fine anni ’80. Soprattutto emerge la prorompente personalità di Chandler, vero freak in possesso di barba e capelli sufficienti per tre o quattro persone “normali”. Il suo rapporto con la chitarra è fisico, brutale, selvaggio. Gli assoli debordanti sembrano sevizie dello strumento, una tecnica sinistra e viscerale che rimanda ad antichi pionieri come i Blue Cheer, non a caso omaggiati dedicando loro una delle canzoni in scaletta.
Questa appassionante miscela di furore elettrico e tinte oscure, così lontana da certo doom moderno lento e sfibrante sino alla noia, si chiude per me anche troppo presto. Il richiestissimo bis termina con lo storico hit “Born too late”, cavallo di battaglia che vanta l’atmosfera dei migliori anthems dark-rock settantiani. Infatti l’irsuto chitarrista, ormai fuori controllo, maltratta il suo strumento alla vecchia maniera, finendo per suonarlo anche con i denti, mentre i fans delle prime file si sbracciano per stringere la mano del grande Wino e dei suoi compagni.
Nessuno pensa che i Saint Vitus siano delle stars o dei titani musicali, ma il concerto milanese ha chiaramente dimostrato che ancora oggi questa band resta una spanna sopra alle giovani leve del settore. Non resta che attendere con enorme curiosità l’eventuale nuovo materiale, mentre applaudiamo questo gradito ritorno sulle scene.
Bentornati, St.Vitus!!!
Fabrizio BertogliattiPer il concerto di stasera si era inizialmente sentito parlare dell’accoppiata St. Vitus e Witchcraft, invece il ruolo di support act per la storica formazione statunitense è poi toccato ai
Centurions Ghost.
Inglese, già arrivato al proprio terzo full-length, questo quartetto si fa prima notare per avere in lineup la chitarrista Federica Gialanzä, poi per il sound, decisamente meno doom e seventies di quello degli svedesi Witchcraft e maggiormente portato ad un sound più vicino ai Cathedral e sopratutto al Death Metal, questo per via del cantato di Mark Scurr, frontman che, sia come presenza sul palco (rimane spesso piuttosto defilato) che per la resa vocale, non va però oltre il compitino assegnatogli. La faccia ce la mette sicuramente il bassista Richard Whittaker, che rivela una discreta presenza scenica e detta sempre i ritmi, da quelli più violenti di "Blessed & Cursed", dal loro più recente album, a quelli catacombali che ci accompagnano nella parte conclusiva del loro show, tutto sommato ben accolto dai presenti, che comunque erano qui per i Saint Vitus.
Come ha già ben sottolineato Fabrizio “Stonerman” un concerto riuscito, sopratutto per la prova dei Saint Vitus, al quale sarebbe stato un vero peccano non poter partecipare.
Sergio Rapetti