Se devo essere sincero, pensavo di trovarmi qui, oggi, a scrivere un live report pieno di “se” e di “ma”, carico di dubbi e critiche verso una band da molti (compreso spesso e volentieri il sottoscritto) ritenuta bollita ed appagata da qualche anno a questa parte. Invece, mi toccherà raccontarvi di un concerto fantastico, fatto di rock and roll purissimo e di emozioni vere, che credo rimarranno impresse per molto tempo nella mente di chi era presente.
Per me e la mia cara mogliettina in veste di fotografa ufficiale, la giornata inizia molto presto, così come per gran parte del pubblico. Già poco dopo mezzogiorno intorno allo stadio ci sono code di fan assiepate ai cancelli e i prati tutto intorno pullulano di gente proveniente da tutta Italia, con tantissimi avventori anche dall’Austria e dalla Slovenia. Durante il pomeriggio il pubblico continua a crescere: osservare il continuo afflusso della gente dal parchetto dove ci siamo stravaccati per difenderci dal caldo ci dà perfettamente l’idea del grande evento che sta per consumarsi. Così, quando finalmente arrivano gli accrediti, ci troviamo ad entrare in uno stadio già praticamente pieno: il colpo d’occhio è davvero notevole ed è reso ancora più incredibile dal monumentale palco che ci troviamo di fronte, sormontato da tre enormi schermi.
L’apertura della serata è affidata ai nostrani
Flemt, che nei pochi minuti a disposizione snocciolano pezzi hard rock di buona fattura, in grado di suscitare applausi in una platea già caldissima e gremita. Una prestazione onesta ma non clamorosa, ovviamente penalizzata da suoni indegni, ma comunque gradevole e abbastanza coerente con ciò che seguirà.
Con grande puntualità, poco dopo le 21 si accendono gli enormi schermi dietro il palco: scorrono le immagini dei ragazzotti del New Jersey, che pochi secondi dopo si presentano on stage con
Raise Your Hands, scatenando una bolgia infernale. Nemmeno il tempo di capire cosa stia succedendo, che
You Give Love A Bad Name provoca l’esplosione definitiva di uno stadio già conquistato dopo pochi minuti. Le impressioni iniziali, nel frattempo, sono assolutamente sorprendenti, almeno per quanto mi riguarda: una band in forma smagliante, affiatata e carichissima, che snocciola canzoni a ripetizione senza un attimo di respiro.
Uno dei momenti più belli, coreograficamente parlando, è durante
We Weren’t Born To Follow, quando alle coloratissime immagini e scritte che vengono proiettate sui maxischermi si uniscono gli spettatori delle due tribune e della platea: sul lato ovest compare una bandiera statunitense, sul lato est la scritta Jovi, mentre il prato si riempie di bandiere italiane. Un regalo alla band da parte del fan club italiano, che ha autofinanziato l’iniziativa, colpendo sicuramente nel segno, dato che anche i musicisti sembrano davvero felici e sorpresi.
Mentre tutto sembra andare per il meglio, ecco però giungere la pioggia, che per una buona mezz’ora cadrà copiosa su
Udine. Gli unici a scomporsi, tuttavia, sono gli spettatori, alle prese con ombrelli e impermeabili: la band non fa una piega, con Jon e Richie sotto l’acqua e tutti gli altri al coperto. Certo, personalmente mi ha fatto un po’ specie vedere chitarre da migliaia di dollari in balia degli eventi atmosferici, ma non credo che ai ragazzi importi poi molto del prezzo degli strumenti. Nel diluvio trova spazio una clamorosa versione di
Bad Medicine, arricchita dalle divertenti cover di
Pretty Woman e
Shout, prima che Jon e Richie raggiungano il pubblico sotto un’acqua violentissima per uno dei momenti più intensi di tutta la serata: la doppietta
Bed Of Roses e
I’ll Be There For You, cantate a squarciagola da tutti quanti.
Un paio di pezzi recenti separano la serata da
Sleep When I’m Dead e
Keep The Faith, intervallate da
Have a Nice Day, in un crescendo di intensità che pone fine alla prima parte del concerto. Pochi minuti e la band si ripresenta con
Dry County e
Wanted Dead or Alive, in cui Sambora sfoggia un chitarrone il legno massello a doppio manico veramente spettacolare e Jon canta avvolto nel tricolore.
These Days e
Livin’ On A Prayer sembrano concludere tutto (e già sarebbe soddisfacente), invece c’è ancora spazio per
Lie To Me ma soprattutto per la richiestissima
Always: intensa, emozionante, con un grande assolo di chitarra. Cantata da tutto il pubblico, riesce a far commuovere perfino lo stesso Bon Jovi, che pure in carriera di stadi cantare ne deve aver sentito più di uno. Chiusura ufficiale affidata invece ad
I Love This Town, prima che le luci si spengano definitivamente su uno dei concerti più coinvolgenti a cui abbia mai assistito.
Parlando dei singoli, devo dire che nessuno ha mostrato meno della perfezione. I due “innesti”, anche se ormai parte della band da anni, Hugh McDonald e Bobby Bandiera hanno svolto il loro compito in maniera ineccepibile (con Bobby più coinvolto e spesso chiamato in causa). David Bryan e Tico Torres sembravano entrambi due ragazzini, che si divertivano come matti a stare sul palco. Richie Sambora è stato immenso: semplice ed efficace come al solito, con un tocco magistrale e caldissimo, uno dei migliori chitarristi di sempre, che è stato un piacere vedere dal vivo. Se fosse rimasto in clinica non sarebbe sicuramente stato lo stesso concerto: c’era e si è sentito dalla prima all’ultima nota. E il Signor Bon Jovi? Beh, era quello su cui avevo più dubbi, quindi è stato quello che mi ha stupito di più. In forma smagliante, a quasi 50 anni, con una voce assolutamente rinata rispetto alle ultime cose live che avevo sentito, in grado di tenere per quasi tre ore a livelli altissimi. Come se non bastasse, la capacità di stringere nel pugno la folla non si è certo affievolita con gli anni: un mattatore puro, ancora in grado di trascinare la gente e di far sciogliere le donne. Insomma, il mestiere di cantante hard rock a uno così non lo deve certo insegnare nessuno.
Tutti in forma e tutti perfetti, dunque, ma la cosa più bella di tutte è stata la sensazione, estremamente nitida, di quanto la band si trovasse a proprio agio sul palco e si divertisse a suonare. Se dopo oltre 100 milioni di dischi venduti e migliaia di date hai ancora voglia di strutturare un tour con scalette da tre ore, evidentemente significa che ami il tuo mestiere. Mi è bastato davvero vedere tutto questo per smentire anni di sospetti e illazioni sulla svolta “commerciale” dei Bon Jovi. Le canzoni avranno anche perso smalto e carica degli esordi, ma questa è una band di gente che suona soprattutto perché ama farlo, non solo per accumulare milioni di Dollari alle spalle dei fan.
Otto anni senza
Bon Jovi si sono sentiti, dunque: band e pubblico si sono ritrovati per tre ore di pura magia, stretti nel caldo abbraccio del rock and roll. Scaletta gustosa e chilometrica, che ha abbracciato tutta la discografia, pur tralasciando alcuni perle che mi avrebbe fatto piacere ascoltare. Per quanto ci riguarda, lasciamo lo stadio in tutta fretta per evitare le code e riuscire a tornare a Milano ad un’ora decente. Una volta in macchina, però, quando la mente ritorna a quello che si è appena visto, ci sentiamo davvero appagati. Nemmeno il tempo di arrivare a Venezia e sullo stereo già risuonano di nuovo le note di Bon Jovi, mentre noi ci ritroviamo a cantare, con il sorriso sulle labbra, perchè chi non c’era si è perso davvero qualcosa di unico e non vediamo l’ora di farlo morire d’invidia.
Come di consueto, due paroline sul contesto direi che sono più che necessarie, soprattutto perché, almeno per una volta, sono assolutamente positive. Organizzazione pressoché perfetta: moltissimi steward preparati e gentili, code gestite con intelligenza, servizi igienici in quantità, cibi e bevande accessibili e senza troppa attesa, in una location ideale per ospitare un evento di queste dimensioni. Palco spettacolare, scenografie di grande effetto e soprattutto una resa audio molto buona (forse le chitarre erano un po’ basse sulle ritmiche, ma probabilmente è solo il mio gusto personale a parlare). Sinceramente, davvero non credo si possa chiedere di più ad un concerto.
Chiudo esprimendo a nome di tutta la redazione un enorme ringraziamento alla
Barley Arts ed in particolare ad
Elena Pantera per tutto il supporto fornito, che ha reso possibile la partecipazione di
Metal.it all’evento.
Setlist:
Raise Your Hands
You Give Love a Bad Name
Blood on Blood
We Weren't Born to Follow
The Radio Saved My Life Tonight
It's My Life
Captain Crash & the Beauty Queen From Mars
We Got It Goin' On
Bad Medicine / Pretty Woman / Shout
Spanish Harlem
Bed of Roses
I'll Be There For You
Who Says You Can't Go Home
I'll Sleep When I'm Dead
Love's the Only Rule
Have a Nice Day
Keep the Faith Bis:
Dry County
Wanted Dead or Alive
In These Arms
Just Older
These Days
Livin' on a Prayer
Lie to Me
Always
I Love This TownServizio fotografico a cura di Francesca Vantellini per Metal.it