Sonisphere... Stereoqualcosa... hum... ah, sì:
Amplifier. Niente, appena riesco a ricordare il nome giusto della band a cui è affidata l'apertura della serata, mi sfugge di nuovo.
E dire che gli inglesi Amplifer, appunto, sono già al terzo lavoro, dopo l'omonimo del 2004, "
Insider" del 2006 e "
The Octopus" del 2010. Il genere è uno space rock psichedelico, che mi ricorda i
Motorpsycho, con suoni dilatati, chitarre riverberate e riff che sembrano crescere a dismisura, lisergici, lunghi ed avvolti su sè stessi come un trip.
La musica, come il nome, continua a sfuggirmi: ben suonata ma anonima, potrebbe essere di chiunque. La voce, oltre ad essere anonima, mi sembra anche mediocre e mi viene da pensare che
Paul Banks degli
Interpol avrebbe fatto tutt'altra figura.
A onor del vero, comunque, il pubblico sembra apprezzare molto e conoscere i loro pezzi. Mezz'ora di cambio palco e alle 21, puntualissima, arriva la vera famiglia reale inglese.
Sono passati tempi in cui ai concerti degli
Anathema c'erano solo amanti del gothic metal; adesso i reduci di quel periodo li scovi subito con la loro maglietta di "
The Silent Enigma" in mezzo ad una moltitudine di gente più sui generis. E la band stessa sembra essere passata oltre, dall'immagine alla selezione dei pezzi, pescati in larga maggioranza da albums come "
We're Here Because We're Here", "
Judgment", "
A Natural Disaster" e dall'ultimo "
Weather Sistems".
Si capisce subito che la band è in stato di grazia.
Vincent Cavanagh conferma la sua grande presenza scenica, saltando, ballando, parlando con il pubblico in un italiano smozzicato e creando subito un legame con i presenti, che alla fine del concerto, durato ben due ore, continuano a chiedergli di suonare e non andare via.La sua voce è magnifica: pulita, potente; abbandonando il restrittivo growling degli inizi ha potuto sviluppare appieno le proprie capacità.
Così come
Daniel Cavanagh ha potuto sperimentare già a partire da "
Eternity" nuove sonorità di album in album, dal prog dei
Pink Floyd, all'art e post rock, fino alla musica sinfonica.
Dal vivo, naturalmente, a prevalere sono le sonorità post rock e le melodie, che si sviluppano come da marchio di fabbrica, con un inizio minimalista, quasi acustico ed un crescendo emotivo che esplode in un picco di intensità. Se non fossero sempre presenti quelle atmosfere malinconiche, a volte disperate, a narrare di silenzi interiori e amori perduti, di un romanticismo tipicamente inglese, sembrerebbe quasi una rock band psichedelica.
Fra i pezzi suonati non potevano mancare: la hit "
Dreaming Light" (cantata in coro dal pubblico), insieme a "
Anything" o "
Angels Walk Among Us" da "
We're Here...";"
Deep" ed "
Emotional Winter" da "
Judgment"; "
A Natural Disaster" e "
Closer" da "
A Natural..." e, ovviamente, il nuovo "
Weather Systems". Stupende "
Untouchable part.1" e "
Untouchable part.2", mentre l'intro recitato di "
Internal Landscapes" non può non essere ricondotto a quello di "
Hope" da "
Eternity".
Ero curiosa di vedere e sentire dal vivo anche la nuova seconda voce
Lee Douglas ed i miei dubbi permangono; ha indubbiamente una voce all'altezza della situazione ma, sia su disco che dal vivo, non riesco a trovare un reale perchè alla sua presenza. Se alcuni pezzi cantati da una donna assumono, in effetti, un aspetto nuovo, in tutti gli altri sembra superflua, quando non anche un elemento snaturante dello stile della band. La stessa situazione che, in un genere diverso, vivono i
Der Blutharsch con
Marthynna.
Nota di merito per l'Alkatraz, che, oltre ad essere enorme e ad avere, quindi, un palco degno di questo nome, ha anche un'acustica perfetta; tutte cose difficili da trovare nei locali italiani.