(12 novembre 2012) Steve Vai @ Alcatraz, Milano - 12 novembre 2012

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Provincia:MI
Costo:€ 41,40
Mi piacerebbe raccontarvi il concerto di Steve Vai in una maniera un po’ diversa dal solito.

Per tanti motivi, ma innanzitutto perché mettermi a parlare di Vai in modo “classico” mi sembra inutile, ripetitivo e, soprattutto, una presa in giro per tutti coloro che seguono e amano l’ossuto chitarrista italoamericano. Cosa c’è mai che io possa dirvi di Steve che già non sapete? Posso mettermi ad elogiare il suo modo unico di suonare, di creare melodia e di giocare con le note, di intrattenere un audience adorante con mille espedienti? Sì, ovviamente, ma non ho assolutamente voglia di stare qui a scrivere ovvietà.

La scelta che faccio oggi è dunque quella di raccontare l’esperienza dell’Alcatraz sotto una luce differente, ossia con gli occhi di una persona (di cui non farò il nome, ma vi darò un indizio: porta all’anulare sinistro un anello con inciso il mio nome e la data di quando mi sono sposato…quindi è uno stalker oppure è mia moglie, pensate quello che preferite!) che mai fino all’altro giorno si era trovata a contatto con la musica di Steve Vai, se non casualmente. MI piacerebbe raccontarvi le sensazioni di una persona che, fino ad ora, era sempre uscita ampiamente annoiata da concerti che potremmo definire strumentali (tipo guitar day ed eventi del genere). Soprattutto, mi piacerebbe raccontare un concerto di questo tipo attraverso le emozioni provate da una persona che è chitarristicamente ignorante, per potervi descrivere appieno quanto l’opera di Vai sia universale e fruibile al grande pubblico.



Prima dei sentimenti, tuttavia, è giusto dare un minimo spazio alla fredda cronaca.
Si parte alle 21 esatte,in un Alcatraz pieno per metà (ma tra il lunedì, la recente calata italica del G3 e, soprattutto, un prezzo non proprio abbordabile, il fatto di avere a che fare con un’affluenza non proprio epocale era da mettere in conto) senza band di spalla, con un palco decisamente spoglio ma egregiamente gestito dal tecnico luci, autore di uno spettacolo nello spettacolo veramente di buon impatto. Un paio di nuovi pezzi (Racing The World e Velorum) e già il pubblico è in visibilio, mentre si prosegue con altri capitoli della trilogia di Real Illusions. Il momento di Tender Surrender è uno di quei momenti da tenere per sempre bene in mente: su disco si ama, dal vivo si adora, si venera, si ascolta in estasi mistica. Una canzone universale ed eterna, che ogni volta emoziona e regala brividi a profusione. E poi via, di nuovo, tra assoli (corti e poco invasivi) e tanti altri pezzi, alcuni dei quali eseguiti in un set acustico piacevole ma, dopo un po’ anche abbastanza stucchevole…insomma, poteva durare anche meno! Nel mezzo, tanti divertenti sketch, con Jeremy Colson che imbraccia un drum-set portatile e ci delizia con un siparietto esilarante, in cui un teschietto parla e schernisce Vai, poi è il momento di una lezione di improvvisazione: due ragazze pescate dal pubblico canticchiano una melodia a loro piacimento e la band ci ricama una canzone in pochi secondi. E via così, senza mai fermarsi e molto, molto a lungo: le luci, infatti, si spengono dopo oltre tre ore.

Dicevamo in apertura di voler parlare di emozioni…e cosa può descrivere meglio di una frase a caldo le emozioni provate? Ecco, a caldo, la reazione di una persona che mai aveva avuto a che fare con Steve Vai e la sua musica, più o meno, è stata concisa, eloquente, sincera e spiazzante. Più o meno, è stata questa: “Minchia!”. Ora, immaginatevi un’accezione, per codesta minchia, decisamente positiva, come a voler significare: “Pensavo di addormentarmi dopo un paio di minuti, invece pur non conoscendo i pezzi e pur non essendo particolarmente affascinata dai virtuosismi chitarristici questo concerto mi appassiona e mi diverte”.
Ecco, secondo voi può esserci qualcosa di meglio per un musicista che offre al pubblico una proposta di questo tipo? Io credo di no. Perché avere le mani, la testa e il cuore di Vai significa saper sbancare tra i brufolosi e i nerd smaniosi di tecnica portata all’estremo, ma anche e soprattutto tra i fruitori di musica più esigenti (e qui ci metto la nostra “cavia”, perché di certo non è tra gli ascoltatori più ingenui e facilmente conquistabili, anzi!). Un personaggio a tutto tondo, che non solo incanta quando suona e per come suona, ma riesce ad accendere attorno a sé una speciale luce, quella che solo i geni possono avere. E quanto Zappa c’è in questa genialità e nei suoi show, carichi, come avete letto poche righe fa, di intermezzi e di gag esilaranti. Ma mantenere l’attenzione viva per oltre tre ore di concerto non è semplice per nessuno, ve lo assicuro. E se pensate a un concerto carico di assoli interminabili sbagliate, perché in mezzo a tanto divertimento lo spazio principale è per le canzoni: un’altra scelta che appaga le orecchie, la pazienza e soprattutto serve a conquistare rapidamente consenso presso chi non rientra tra i fedelissimi e tra i maniaci delle sei corde.

Cotanto genio, tuttavia, non può essere in grado di fare tutto da solo, così si circonda di musicisti con gli attributi talmente grandi e quadrati che avrebbero potuto suonarci seduti sopra.
Partiamo da quella che secondo me (Steve escluso, ovviamente) è la colonna portante di tutto il sound live di Vai: il bassista Philip Bynoe. Un rullo compressore di presenza scenica e fisica imponente, che costruisce un tappeto sonoro avvolgente ma anche prepotente, senza pause e senza sbavature. Il drummer Jeremy Colson, invece, non solo completa la sezione ritmica con una pacca rara ed efficacissima, ma mette la ciliegina sulla sua personalissima torta aggiungendo pepe allo show e seguendo Vai nelle gag con una sicurezza encomiabile. Chiude il cerchio della perfezione il secondo chitarrista Dave Weiner, di cui sinceramente non so proprio cosa dire. Nel senso, vi rendete conto di quanto deve essere bravo ma soprattutto disposto a mettersi completamente in gioco un chitarrista che si mette a suonare con Vai? Guardate che non è cosa da poco, considerato soprattutto quanto siano primedonne i chitarristi. Personalità a parte, sentirlo suonare è un godimento vero, soprattutto quando imbraccia l’acustica, dimostrando di essere un Maestro. Con la M non maiuscola, ma di più. A completare la band, fuori stavolta dal cerchio della perfezione, l’arpista Deborah Henson-Conant. Per carità, bravissima, eh. Però la scelta di portarsi in tour, tra l’altro tenendola sul palco praticamente per l’intero concerto, un’arpista, lascia un po’ il tempo che trova. Anche perché sono davvero pochi i momenti in cui il suono della chitarra e quello dell’arpa sono riusciti a creare un’alchimia perfetta, mentre molto più spesso si è pesantemente rischiato di finire nella cacofonia. Tra l’altro, il suono dell’arpa distorta è sicuramente uno dei suoni peggiori che mi sia mai capitato di sentire in anni di militanza.

Tutto sommato…che concerto strepitoso, amici! Personalmente, a Steve Vai ho sempre preferito altri chitarristi, Gilbert e Timmons su tutti, ma quando suona, alla fine, zittisce ogni obiezione. La cosa che mi piace più di lui, in assoluto, è il modo che ha di giocare con lo strumento. Un gioco che sembra così divertente da apparire perfino facile, ma quando ci si concentra su quello che sta facendo, si comprende chiaramente che le persone in grado di riprodurre nello stesso modo certe cose, al mondo, sono sicuramente ben poche. Se a tutto ciò aggiungete il fatto che trovarsi di fronte a un’artista che sul palco si diverte rappresenta la fortuna più grande che possa capitarvi quando andate a sentire un concerto, capirete bene che le tre ore di lunedì sera hanno rappresentato un’occasione splendida per godersi a tutto tondo un genio assoluto della musica moderna.

Come di consueto, un grande e doveroso grazie a Livenation per la collaborazione!

Servizio fotografico a cura di Francesca Vantellini per metal.it
Report a cura di Alessandro Quero

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