Qualcuno potrebbe obiettare che la musica proposta dal duo inglese possa essere "fredda", per l'utilizzo di basi campionate e drum machine, oppure per l'essenzialità dei pezzi, scarni nella loro violenza e ruvidi di un'aggressività che non invecchia mai, ma la verità è che sul palco i due "diversamente giovani" funzionano ancora alla grande, tengono la scena per un'ora abbondante senza mai stancare e senza dare un solo attimo di respiro al pubblico accalcato in un Bloom gremito per assistere ad un evento che non si ripeteva lì da ben 18 anni.
Le danze le apre il buon Nicola Manzan con il suo progetto
Bologna Violenta. La formula della one-man-band in un ambito estremo e sperimentale può sembrare ambizioso e rischioso dal vivo, ma il nostro si spende in uno show decisamente forte, intenso e che non pecca un minimo per impatto e coinvolgimento. Una solida mezz'ora in cui si snodano sfuriate di chitarra stese sopra blast beats, suoni 8-bit, arrangiamenti di archi e altri incubi saggiamente miscelati in un tessuto sonoro magmatico e caotico.
Notevole in particolare la sezione del set più sperimentale ed estrema, nella quale i protagonisti delle esplorazioni sonore di Manzan diventano la sua voce opportunamente distorta e filtrata e il suo violino elettrico, che tracciano deliri acustici sopra una base di campioni tanto evocativa quanto inquietante.
Giusto il tempo di una breve pausa (chiamarla "cambio palco" sa un po' di ridicolo con un gran totale di tre strumentisti per due band) e l'attacco di Love is a Dog from Hell inizia a prendere a sberle il pubblico. Volumi alti, un sound grosso come una casa che pare quasi innaturale sia costituito da due strumenti live e una batteria elettronica, eppure l'impatto è a dir poco impressionante, con Broadrick che si lascia trasportare dal lungo fluire dell'opener come nemmeno un ragazzino farebbe e Green che costruisce la struttura della canzone in maniera solida e diretta con il suo Jazz Bass e un'impeccabile compostezza che manterrà per tutto il concerto.
Il bello di assistere all'esibizione di un gruppo con un'esperienza più che ventennale alle spalle sta nella consapevolezza del fatto che OGNI pezzo che suoneranno sarà una pietra miliare della storia del genere, e così si susseguono Like Rats, Christbait Rising e Streetcleaner. Mentre grido "Breed...like rats!" manco avessi quindici anni di nuovo mi rendo conto di come, dal vivo, i
Godflesh facciano veramente capire la loro seminale importanza per tutto il genere che poi s'è identificato con il filone dell'industrial e dei suoi derivati più contemporanei. Esperienza nel creare caos e nel torturare gli strumenti sopra una struttura percussiva ossessionante e meccanica, grida distorte, chitarre impazzite: c'è tutto. Pensare poi che questo trittico di pezzi ha circa ventiquattro anni e sembra essere stato scritto l'altro ieri per freschezza e impatto sonoro, un po' d'effetto lo fa.
Dopo un altro estratto da Streetcleaner, Tiny Tears, la scaletta prevede un'escursione attraverso l'album Pure con Mothra, la title track e Spite, fino ad arrivare a Crush My Soul, estratta da Selfless, che lascia il pubblico boccheggiante e avido dell'encore.
Era un bel po' di tempo che aspettavo l'occasione di poter vedere Justin Broadrick dal vivo, specialmente con i Godflesh, la sua creazione più verace e storica; onestamente, non posso assolutamente dirmi deluso, anzi, un'esperienza del genere mi mancava, per la sua unicità e per la sua carica emotiva. Pezzi "vecchi" di vent'anni che non sfigurano riproposti dal vivo oggi, una presenza sul palco che si auto-pone, senza bisogno di numeri particolari o chissà quali artifici scenografici; insomma, l'essenzialità e la passione coniugata alla storicità e al saper consegnare al pubblico una prestazione che difficilmente si dimentica per il suo impatto e per la sua intensità.
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