Baroness: emergenti, esplosivi, evoluti. Questa la micro-sintesi del momento che sta attraversando la formazione americana, in crescendo di notorietà e soprattutto di livello compositivo. Situazione evidenziata nell’ultimo, eccellente, “Yellow & green”, lavoro in studio che anche il sottoscritto ha sempre più apprezzato col trascorrere del tempo.
Per loro si muove l’inossidabile e storico duo di decani dello staff, Ermo e Stonerman (
a proposito, colgo l’occasione per salutare e ringraziare tutti gli amici conosciuti durante il VERO evento dell’anno…. chi si chiede quale, sia bannato a vita!..nda), capaci al ritorno di perdersi nella brughiera piemontese pur avendo a disposizione il navigatore satellitare (ti ho detto di lasciare queste cose ai giovani, fidati!).
Il concerto si tiene al Tunnel, piccolo ma piacevole locale nel centro di Milano. Entriamo proprio nel momento in cui inizia lo show dei semi-carneadi
Royal Thunder. In base al nome, si potrebbe pensare ad una delle tante zuccherose band Aor che soltanto il buon Aimax riesce ad ascoltare senza conseguenze diabetiche. Invece si tratta di un ottimo trio psycho-stoner, guidato da una bassista/cantante che pare la versione ripulita di Jex Thoth. Il loro sound è prevalentemente cadenzato, magmatico ed ipnotico, con ampie dilatazioni strumentali ed attraversato da una corrente nervosa, ben sottolineata dalla voce a tratti rabbiosa di Mlny Parson. Il pubblico, circa trecento persone, si fa circuire dal martellare rutilante del giovane drummer e dalle distorsioni della chitarra, in una serie di lunghi brani che culminano con la debordante “Blue”. Dopo, i Royal Thunder salutano lasciando la forte impressione di essere buona formazione, sicuramente di nicchia ma consigliabile agli appassionati del settore.
Dopo la rituale pausa tecnica, ecco i
Baroness sul palco. Si parte con l’accoppiata “Take my bones away”/”March to the sea”, tratta dalla parte “gialla” dell’ultimo album. Osservando il quartetto, colpisce il fatto che ciascun componente esibisce un look diverso: John Dyer Baizley ha l’ormai immancabile barba da “alternativo” ed il sorriso gioviale, l’altro chitarrista Pete Adams è il classico metallaro lungocrinito, mentre il bravo batterista Allen Blickle potrebbe passare per uno Scott Columbus più civilizzato. Il più normale è il bassista Nick Jost , che si scioglierà soltanto nel finale.
Anche chi non conosce a fondo il repertorio degli statunitensi, difficilmente non si sarà emozionato con la dolcezza di “Foolsong” o esaltato grazie all’imponenza delle rocciose “A horse called Golgotha” e “Swollen and halo” (da “Blue record”). La seconda metà della scaletta è da urlo, verificate voi stessi, ma qui cito soltanto l’eccelsa “Cocainium” e quel piccolo gioiello melodico che è “Eula”, canzone che delinea alla perfezione il nuovo corso del gruppo. Chiude un must come “The gnashing”, dove le due chitarre triturano i fans prima dei saluti.
Come previsto, il bis comprende tre brani: “The sweetest curse” e “Jack leg”, ancora dal secondo disco, ed una devastante “Isak” presa dal “disco rosso”, certamente il capitolo più heavy della ancor breve discografia della formazione.
Va detto che solitamente questo tipo di band non vantano un alto tasso d’interazione con gli spettatori, ma i Baroness cercano perlomeno di rendersi simpatici grazie agli sforzi di Baizley ed alla fine tutti i commenti risultano positivi. A me basta notare che il mio socio, notoriamente poco avvezzo ad ascoltare buona musica, confessa di essere contento di aver assistito alla performance e dichiara che è sicuramente una bella e gustosa serata.
Prima di sbagliare strada e smarrirsi nella foschia (
mica è colpa mia se l’autostrada ci ha improvvisamente dirottato verso le nebbiose campagne chivassesi ndErmo).
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