Live Music Club, Trezzo sull'Adda (MI), 24.11.2013Quando si dice due piccioni con una fava…
Da buon mantovano (seppur acquisito) ho imparato da tempo a covare il giusto malanimo nei confronti dei pennuti tubanti; ciò non toglie che il detto popolare trovi perfetta trasposizione pratica nella fredda serata di Trezzo sull’Adda. Una serata che mi permetterà finalmente di appiccicare sull’album dei grandi gruppi metal visti dal vivo due tra le figurine più importanti dell’intera categoria “death” (prima che mi diate del nerd, segnalo che il riferimento alle figurine è da intendersi quale mera figura retorica).
Se poi, per sovrappiù, si può ingannare l’attesa di
Carcass e
Amon Amarth con gli
Hell, l’aggettivo “imperdibile” diviene l’unico in grado di descrivere l’appuntamento del 24 novembre.
Mi accorgo presto di non essere il solo a pensarla così: giunto al parcheggio del Live alle 19:30 in punto, noto una nutrita e composta frotta di metaller confluire verso il cancello d’ingresso. La processione si rivela più lenta del previsto; fortunatamente, nell’istante in cui le mie orecchie odono un riff di chitarra familiare promanare dall’interno del locale, mi trovo ormai a pochi metri dall’approdo...
HELLAlle 20:00 spaccate, la band inglese irrompe sul palco, inaugurando la serata con
The Age of Nefarious, ottimo brano tratto dall’eccellente
Curse and Chapter, fresco di stampa. Prim’ancora di concentrarmi sugli
Hell, scorgo con soddisfazione il notevole colpo d’occhio che il locale, già pressoché gremito (sarà sold out), è in grado di offrire.
Tocca all’istrionico
David Bower, che funge da autentico catalizzatore, il compito di coinvolgere i numerosi presenti, invero accorsi per assistere all’esibizione di altre band dal sound piuttosto lontano da quello del quintetto albionico.
Detto, fatto: a petto nudo, senza t-shirt nera d’ordinanza ma con stilosa corona di spine e simpatico frustino in dotazione, il singer si danna l’anima (in tutti i sensi) per trascinare la folla, fra scatti, declamazioni, pose, mossette (molto eighties) ed esorcismi improvvisati. La performance vocale, giocata su vocalizzi altrettanto ottantiani (falsetto maligno e acuti come se piovesse), non pare risentire delle grandi energie profuse a fini di presenza scenica.
Né, d’altro canto, si risparmiano i restanti membri: la sezione ritmica, composta da
Tony Speakman al basso e
Tim Bowler alla batteria, non fa gridare al miracolo per tecnica, né riesce a mascherare dietro il pesante make up l’inesorabile incedere della senilità, ma fornisce una prestazione generosa e sanguigna; lo stesso si può dire della coppia d’asce, che ci delizia con alcuni riff di matrice NWOBHM dal grande impatto.
Come detto, gli spettatori reagiscono con crescente entusiasmo all’heavy classico imbevuto di suggestioni dark proposto dagli
Hell, i quali, evidentemente soddisfatti dell’accoglienza loro riservata, optano per un improvvisato (e gradito) bis. Dunque, dopo la bella
The Quest, si congedano con
Save Us From Those Who Would Save Us.
Gli applausi convinti al termine dello show decretano il piccolo grande trionfo di un gruppo sfortunato, che mi auguro possa togliersi ora le soddisfazioni che avrebbe meritato già trent’anni orsono.
CARCASSL’attesa è spasmodica, quasi palpabile: credo di poter affermare che ben pochi dei presenti abbiano avuto la fortuna di assistere a un live della band capace di definire i canoni del grind (prima) e del death melodico (poi) grazie ad album leggendari. Così, quando le luci si abbassano e gli speaker diffondono le note dell’intro
1985, un brivido scorre sulla schiena di chi, come il sottoscritto, attende da tempo la calata italica dei
Carcass.
Riuscite a immaginare un modo migliore di
Buried Dreams per rompere gli indugi? Il potentissimo riff che apriva
Heartwork ha il potere di stamparmi un sorriso ebete sulla faccia (peraltro già incorniciata da una cuffia da vichingo che non aiuta la causa della serietà), così come fanno le meravigliose
Incarnated Solvent Abuse e
This Mortal Coil.
La band è decisamente in palla:
Walker non sembra aver perso un filo della sua tagliente voce, e
Steer si dimostra chitarrista dotato di raro buongusto (eccezionali alcuni suoi assoli). Non sfigurano affatto l’altro guitar player,
Ben Ash (anche se i volumi lo penalizzano) e il drummer
Dan Wilding, autentica macchina da guerra a dispetto di un vestiario degno del peggior
Fred Durst (personaggio che aborro).
La risposta degli spettatori si traduce in un pogo sfrenato e gaudente, che non accenna ad arrestarsi in occasione dei tre estratti da
Surgical Steel. Pur reputando il recente disco del combo britannico un mezzo fiasco, devo ammettere che le
Unfit For Human Consumption,
Cadaver Pouch Conveyor System e
Captive Bolt Pistol del caso si fanno decisamente apprezzare, potendo contare su una cattiveria esecutiva che latita nelle esecuzioni in studio.
Certo, quando i nostri attaccano con la malevola
Corporal Jigsore Quandary, accompagnata da inquietanti filmati in bianco e nero colmi di bisturi, cervelli, tavoli operatori e interiora assortite, il cambio di passo appare evidente.
L’autentico tuffo al cuore (non vuole essere un gioco di parole, lo giuro!), tuttavia, lo provo con Sua Maestà
Heartwork, a sommesso parere dello scrivente tra le migliori canzoni metal di sempre, senza distinzione di genere. Poter godere di quel riff perfetto in versione live è un’esperienza magnifica, che chiude nel modo migliore un set tanto breve quanto memorabile.
Non scommetterei grandi somme sulla sincerità artistica della loro reunion, ma dopo un’esibizione di tale caratura non posso che inchinarmi di fronte ai nostri anatomopatologi di fiducia.
AMON AMARTHTocca ai vichinghi di Stoccolma concludere nel modo migliore la serata. Non è mia intenzione soffermarmi troppo a lungo sulla "questione headliner", già sviscerata a sufficienza in giro per il web. Mi limiterò a questo: il peso storico e la caratura dei
Carcass è innegabile, eppure gli
Amon Amarth, ad oggi, possono contare su una popolarità maggiore. Punto. Senza contare che non stiamo discutendo dei pivellini di turno, o delle classiche new sensation che, dopo un paio d’anni trionfali, finiscono a organizzare eventi a Disneyland Paris (
Mauro Repetto uno di noi!); parliamo, al contrario, di una band fondata oltre vent’anni fa, che ha già partorito nove studio album e almeno tre capolavori.
L’ultimo dischetto non rientrerà nella categoria, ma quando i cinque prendono posizione sul palco e attaccano con l’energica
Father of the Wolf, nessuno si lamenta.
Anzi: il ritornello della successiva
Deceiver of the Gods viene intonato a gran voce dalle prime file, sintomo che il nuovo corso, più melodico e accessibile, intrapreso con
Surtur Rising, è stato compreso e accettato da gran parte dei fan.
Che gli
Amon Amarth siano una garanzia dal vivo lo si sa da tempo, eppure sono felice di poterlo constatare in prima persona: la sezione ritmica martella senza pietà (
Fredrik Andersson non sbaglia un tocco), mentre i due chitarristi
Johan Söderberg e
Olavi Mikkonen alternano con assoluta naturalezza riffing spaccacollo, pregevoli solos e fraseggi d’alta scuola.
Il mastodontico
Johan Hegg, da ultimo, si conferma autentica bestia da palcoscenico, mettendo in mostra (oltre a una discreta pancia da bevitore di birra seriale) innegabile carisma, presenza scenica ai massimi livelli e discreta padronanza del nostro idioma (la bestemmia viene pronunciata in modo impeccabile). Al resto ci pensa quel growling profondo e possente, che lo rende riconoscibile tra mille.
I suoni si rivelano buoni, anche se le due asce risultano un pelo impastate in alcuni frangenti; si tratta comunque di una pecca di scarso rilievo, che non inficia affatto la resa di autentiche gemme di gloria guerresca quali
Death in Fire,
Runes to my Memory,
Varyags of Miklagaard o
Guardians of Asgaard. Credo di poter definire tutto sommato positiva la scaletta, che tuttavia nulla concede ai primi tre dischi e che indugia forse troppo sul già citato
Deceiver of the Gods (rappresentato da ben cinque pezzi).
L’assenza di qualche classico si sente un pò, e speravo in un estratto dal grandioso
Once Sent from the Golden Hall, ma non si può avere tutto dalla vita; per fortuna, ci pensa la doppietta
Cry of the Black Birds e
War of the Gods a conquistare definitivamente la platea, che inizia addirittura a intonare le melodie di chitarra come avviene ai concerti dei
Maiden.
Hegg fa capire con gesti eloquenti di avere la pelle d’oca, e io altrettanto.
Il gruppo si congeda, ma nessuno ci casca: bastano pochi minuti di attesa e gli
Amon Amarth guadagnano nuovamente il proscenio, deliziandomi con la spettacolare
Twilight of the Thunder God, brano che adoro in modo viscerale (e che qualche anno fa era uno dei miei cavalli di battaglia a Guitar Hero, a proposito di nerd).
Spetta all’immancabile
Pursuit of the Vikings (con tanto di sing along, davvero notevole per un gruppo death) il triste onore di chiudere un gran concerto, assolutamente all’altezza delle aspettative.
I vichinghi possono abbandonare il campo di battaglia da vincitori.
Mi sentirei di concludere il live report con un sincero e accorato “bravi tutti!”: gruppi, organizzazione e pubblico. Ho assistito a un evento spettacolare, che resterà impresso a lungo nella memoria dei fortunati presenti.
Epicità e viscere: tandem vincente!
Live report di
Marco Cafo CaforioFoto di
Giulia BianchiSetlist:
HELL1-
The Age of Nefarious2-
On Earth as it is in Hell3-
Blasphemy and the Master4-
Something Wicked This Way Comes5-
The Quest6-
Save Us From Those Who Would Save UsCARCASS1-
Buried Dreams2-
Incarnated Solvent Abuse3-
Unfit For Human Consumption4-
This Mortal Coil5-
Cadaver Pouch Conveyor System6-
Genital Grinder / Exhume to Consume7-
Corporal Jigsore Quandary8-
Captive Bolt Pistol9-
Ruptured In Purulence / HeartworkAMON AMARTH1-
Father of the Wolf2-
Deceiver of the Gods3-
Death in Fire4-
Live for the Kill5-
As Loke Falls6-
We Shall Destroy7-
Runes to my Memory8-
Varyags of Miklagaard9-
The Last Stand of Frej10-
Guardians of Asgaard11-
Warriors of the North12-
Destroyer of the Universe13-
Cry of the Black Birds14-
War of the GodsEncore
15-
Twilight of the Thunder God16-
The Pursuit Of Vikings