INTROIl mondo sarà un luogo molto più grigio e triste quando i
Maiden appenderanno definitivamente gli strumenti al chiodo. Ciò è quanto il mio cervello elabora se ripenso alla terza (o seconda, considerando l’annullamento causa maltempo del Day 1) giornata di
Rock In Idro.
Il report potrebbe anche chiudersi qui, non fosse per la mia prolissità e per il fatto che il bill prevedeva, in appoggio alle divinità inglesi, altre sette compagini, alcune delle quali hanno saputo dar vita a spettacoli di livello. Altre invece...
Ma andiamo con ordine:
SKILLETSono onesto: ero terrorizzato all’idea di dovermi sorbire un concerto del combo americano (che oltreoceano, per motivi a me incomprensibili, vende vagonate di cd). Ho deciso, per questo articolo, di accantonare il freddo taglio da cronista in favore di un approccio alla scrittura più passionale: con gli Iron di mezzo è inevitabile. Dunque posso lasciarmi andare, e ammettere che l’alternative da pischelli brufolosi della creatura di
John e
Korey Cooper, contraddistinto da arrangiamenti elettronici delinquenziali, tinte sinfoniche da quattro soldi, linee vocali tanto lamentose quanto tamarre e tristissimi testi di matrice cristiana sembra confezionato ad hoc per racchiudere tutto quello che aborro nella musica rock.
Provvidenza vuole che un’affannosa ricerca del parcheggio, due chiacchiere coi miei compagni di viaggio e una fila in biglietteria per recuperare i preziosi bracciali che permettono l’accesso al Pit m’impediscano di assorbire da vicino le urticanti vibrazioni sonore di classici (?) quali
Sick of It,
Rise e
Monster
.
Comunque sia, quel lontano ronzio non fa che avvalorare le mie convinzioni:
Memphis può senz’altro contare su rappresentanti musicali più degni (e pelvici) degli
Skillet.
Well, It’s One for the Money
Two for the Show…
HAWK EYESHo appena messo piede nell’
Arena Joe Strummer (un tempo più prosaicamente
Arena Parco Nord) quando il quartetto proveniente da
Leeds guadagna il proscenio; ho così modo di assistere a una performance volenterosa quanto caotica, tesa all’arduo (e, in effetti, non raggiunto) obiettivo di coinvolgere una platea ancora distratta. Anch’io, dopo aver realizzato che nemmeno dal vivo la mistura di metalcore, sludge e noise proposta dagli ex-
Chickenhawk riesce a conquistarmi, decido di concentrare le attenzioni su birra, stand e t-shirt dell’evento (che non compro da almeno quindici anni ma guardo sempre volentieri).
Sul palco, nel frattempo, pochi sussulti: l’esecuzione arruffona e i suoni sporchi impediscono alle varie
Kiss This e
Bears by the Head di emergere, facendo scivolar via l’esibizione nel disinteresse generale.
Insomma, dopo il drammatico inizio (avevo già scritto che gli
Skillet mi fanno schifo?) si nota qualche timido progresso, ma l’impressione resta: credo che attingendo nel sottobosco italico si sarebbero potute scovare dozzine di band più appropriate nonché, se me lo concedete, più valide.
A proposito di band nostrane…
EXTREMAHo avuto modo di assistere a svariati concerti del combo milanese nel corso degli anni, e continuo a ritenere che proprio quella live sia la dimensione a loro più congeniale. A livello discografico, da buon metallaro rozzo e retrivo quale sono, ho smesso di seguirli con interesse da oltre quindici anni, e cioè da quando decisero d’impastoiarsi nelle fetide paludi dell’allora imperante scena nu-rap-core metal (chiamatela come volete, io sto ancora cercando di dimenticare), per poi tornare all’ovile del sano vecchio thrash panteriano una volta esauritesi le fortune del tremebondo filone che ha funestato la mia adolescenza.
Ciò premesso, sono ben lieto di accantonare le perplessità di fronte a un’esibizione come quella fornita dalla band di
Tommy Massara. Un’esibizione cazzuta, grintosa e convincente, tanto da farci dimenticare che
Selfishness sembra la brutta copia di
Revolution is my Name e che
Pyre of Fire riesce, in meno di venti secondi, a scopiazzare l’intro di batteria di
Painkiller ed il main riff di
Cowboys from Hell. Al tempo stesso, canzoni non irresistibili come
Again and Again e
Deep Infection (tratte dall’ultimo
The Seed of Foolishness) in questa sede si fanno apprezzare.
Buona parte del merito va al nuovo arrivato
Francesco La Rosa, che dietro le pelli sforna una prestazione precisa e di grande sostanza, così come il resto del gruppo. Per il resto ci pensa il buon
Gianluca Perotti, con le sue movenze anselmiane e tutta l’esperienza di navigato frontman quale è, a conquistare i presenti, che incitano, applaudono e pogano senza farsi troppo pregare.
Gradito premio al loro sostegno giunge con
The Positive Pressure (Of Injustice),
This Toy,
Money Talks e
Life (unico estratto dal magnifico
Tension at the Seams), brani che saranno derivativi quanto volete ma che rappresentano comunque un pezzo di storia del metallo tricolore.
Ebbene sì, cari
Extrema: dal vivo siete ancora fieri e potenti, ve lo concedo.
BLACK STONE CHERRYAh, il
Kentucky, patria dell’immortale
Colonnello Sanders (la catena
KFC non esiste in Italia, quindi credo di poterlo scrivere: sempre siano lodate le sue untissime alette di pollo fritto!)… Se volete visitare l’affascinante stato americano ma vi mancano tempo e soldi, ci penserà il southern rock sanguigno dei
Black Stone Cherry a catapultarvi là per un’oretta scarsa.
Sanguigno sì, ma con un occhio ben attento alla fruibilità delle melodie: dopo la grintosa
Maybe Someday (dal debutto del 2007), infatti, è il contagioso ritornello di
Me and Mary Jane ad insediarsi nelle testoline accaldate del pubblico.
L’improbo compito di scacciarlo viene affidato al ruvido feeling blues di
Yeah Man, alla ballatona
In My Blood e a
Blind Man, esempi lampanti di come si possa creare ottima musica (per ora, siamo a quattro centri su quattro album) senza inventare alcunché. “Solo” belle canzoni: questo il piccolo grande segreto del combo statunitense.
Il trittico finale, composto dal massiccio mid tempo
White Trash Millionaire, da
Blame it on the Boom Boom (altro chorus virale!) e dalla conclusiva
Lonely Train è lì a dimostrarlo.
La resa live, peraltro, si rivela ottima; tutta la band andrebbe elogiata, ma una menzione d’onore intendo spenderla per la fantastica voce del corpulento
Chris Robertson (anche alla chitarra), e per la sovrumana possanza di
John Fred Young, drummer indemoniato che martella come un fabbro per tutto il concerto senza smarrire un’oncia del caratteristico flavour seventies.
Peccato per la setlist piuttosto breve (solo otto pezzi); vorrà dire che torneremo ad ammirarli in occasione della prossima calata italica…
OPETHTemevo l’esibizione degli svedesi, ma per ragioni ben diverse da quelle degli sciagurati
Skillet: pur adorando gli
Opeth, sapevo bene che le loro canzoni multiformi, criptiche e interminabili sarebbero state percepite come polpettoni indigesti dai non iniziati. E poi, permettetemi un appunto di carattere organizzativo: piazzare un cervellotico e tenebroso ensemble progressive death sotto il sole, a metà pomeriggio, incastrandolo tra realtà ben più accessibili e mainstream come
Black Stone Cherry e
Alter Bridge… beh, non è stata l’idea del secolo.
Va anche aggiunto, per amor di verità, che nemmeno il quintetto scandinavo si è adoperato granché per sconfiggere le diffidenze, dimostrando una freddezza sinistramente prossima all’alterigia. Il primo a dare il cattivo esempio è proprio il mastermind
Mikael Åkerfeldt, presentatosi con fare piuttosto svogliato, coperto da ampi occhiali da sole e avvolto da una patina di malcelato distacco.
L’incipit, d’altra parte, è di quelli che si ricordano:
Deliverance racchiude tutte le caratteristiche che hanno reso celebre la band… seppur in tredici minuti abbondanti. Analogo discorso può essere imbastito per la spettacolare
Heir Apparent (da
Watershed, 2008), che mette in mostra la sopraffina preparazione tecnica dei musicisti (la sezione ritmica è spaventosa,
Martin Axenrot in particolar modo).
Il sottoscritto, che conosce i brani e i loro continui cambi d’umore, apprezza; i miei vicini, a giudicare dalle espressioni perplesse, un po’ meno.
Figuratevi i loro sguardi attoniti al termine della doppietta
The Devil's Orchard /
Atonement, quest’ultima sorta di trip psichedelico indiano (con tanto di bonghi e sciamanico assolo del tastierista
Joakim Walberg) che nemmeno i
Beatles di
Within You Without You…
Segue la fantastica
Demon of the Fall (tratta da
My Arms, Your Hearse, disco del ‘98 che non si fila più nessuno ma che a parer mio rimane uno dei migliori dell’intera discografia opethiana), il capolavoro
Blackwater Park e…
e basta.
Eh già. Sei pezzi, un’ora di concerto.
Un concerto controverso, inattaccabile se ci soffermiamo sul profilo esecutivo (per quanto, non è un mistero,
Åkerfeldt da qualche anno a questa parte fatichi un po’ col growl) e sulla qualità dei brani scelti, eppure non del tutto convincente. Forse perché i primi a non essere convinti erano proprio loro: gli
Opeth.
Da rivedere al chiuso, in un ambiente piccolo e buio, da headliner. Così magari si concedono di più e riescono a sforare la soglia delle dieci canzoni in scaletta…
ALTER BRIDGEQuando si parla della band di
Orlando, sembra che il Pianeta Terra si divida in due macro-categorie: chi ama la particolarissima voce di
Miles Kennedy e chi la detesta. Io, giusto per rompere, mi posiziono nel mezzo: pur riconoscendone le mostruose doti di controllo ed estensione vocale, non riesco a farmi piacere fino in fondo il suo timbro. De gustibus.
Lo stesso, a voler ben vedere, vale per il suo gruppo, quegli
Alter Bridge che paiono in costante ascesa e che proprio col pubblico italiano sembrano godere di un feeling particolare (come testimonia la prossima pubblicazione di un live album registrato a
Milano) ma che personalmente ho sempre inserito nel barattolone che reca l’etichetta “band bravissime che per qualche motivo non fanno per me”.
D’altra parte, a chi importa dei miei gusti da blackster misantropo?
Di certo non a
Mark Tremonti e soci, che irrompono on stage e impallinano le prime file con l’impetuoso riff del singolone
Addicted to Pain. Seguono senza soluzione di continuità i brani più rappresentativi dei quattro parti discografici dei Nostri, seppur con una netta predilezione per
Blackbird, che fagocita quasi metà setlist.
Non si fanno affatto disprezzare gli altri estratti dall’ultimo
Fortress, magari meno immediati strutturalmente ma già memorizzati alla perfezione dai fan, così come non stride l’accostamento tra le incursioni commerciali esplorate con
AB III (
Ghost of Days Gone By) e il sound più ruvido degli esordi (
Metalingus).
Il gruppo, dal canto suo, sembra in palla, tanto che dei volumi bassini anzichenò e la perdita della bacchetta da parte di
Scott Phillips durante il breve drum solo (evidenziata con un sonoro sghignazzo dal perfido
Kennedy) non bastano ad arrestarne la marcia.
Così, zompettando tra l’ottimo assolo di
Tremonti su
Blackbird, il feeling anthemico di
Rise Today e il mastodontico chorus di
Isolation giungiamo presto al termine di una esibizione di alto livello, accolta senz’altro favorevolmente ma con meno trasporto di quanto mi sarei aspettato da parte del folto pubblico.
Per quanto mi riguarda, siamo alle solite: gli
Alter Bridge mi sono piaciuti, ne riconosco le qualità ma nemmeno stavolta sono riusciti ad entrarmi nel cuore.
Forse perché il mio cuore è da sempre tutto per loro…
IRON MAIDENHo chiarito tempo addietro che questo sarebbe stato un report più emotivo che tecnico, no? Bene, allora tanto vale giocare a carte scoperte sino in fondo: sono una persona compassata e razionale come poche, ma gli headliner di stasera hanno il potere di trasformarmi nel più becero dei fanboy e di privarmi di ragionevolezza, capacità critica e discernimento.
D’altro canto, se affermo che gli
Iron sono per distacco la miglior live band della storia dell’heavy metal non lo faccio per partigianeria: ne sono intimamente e fermamente convinto.
Questione di opinioni, certo, ed io la mia l’ho cementata in ognuno dei ventuno concerti della Vergine cui ho avuto la fortuna di assistere. Il ventiduesimo, qui al
Rock In Idro, funge da gradita conferma.
Sono le 21:15 quando i sei fanno l’ingresso sul palco, dopo l’immancabile
Doctor Doctor e una breve intro sinfonica. Come l’anno scorso, è
Moonchild ad aprire le danze, seguita a ruota da un altro estratto di
Seventh Son of a Sevent Son, quella
Can I Play With Madness che sarà sempliciotta quanto volete ma dal vivo è sempre coinvolgente.
La scenografia avrebbe già dovuto suggerirlo, ma chi attendeva stravolgimenti rispetto alla setlist proposta nel tour del 2013 è destinato a rimanere deluso: solo tre brani su diciassette sono mutati, e non sempre per il meglio.
Personalmente ho accolto con favore l’inserimento di
Revelations (al posto di
Afraid to Shoot Strangers, splendida ma fuori posto), così come l’avvicendamento in chiusura tra
Running Free e
Sanctuary. Al contrario, non avrei sostituito
Clairvoyant con
Wrathchild, che incastrata tra
Seventh Son of a Seventh Son e
Fear of the Dark fatica a spiccare; se proprio, avrei optato per
Killers, pezzo magnifico che da troppi anni manca nelle scalette dei Nostri.
Ma parliamo di minuscole rimostranze da fan sfegatato: tutto scorre a meraviglia, tanto da dimenticare qualche passaggio vocale non perfetto di
Bruce e qualche assolo di
Adrian depotenziato dal volume troppo timido della sua chitarra.
La prima parte del concerto si risolve in una mitragliata mozzafiato di classici senza tempo:
The Prisoner,
2 Minutes to Midnight,
The Trooper,
The Number of the Beast vengono eseguite alla perfezione, con uno
Steve Harris in forma smagliante e un
Dave Murray sempre più protagonista.
Il pubblico risponde con un entusiasmo assoluto, intonando ogni strofa, ogni ritornello, ogni melodia di chitarra e, talvolta, addirittura i passaggi chiave di alcuni assoli.
Non da meno il “secondo tempo” dello show, che affianca a pezzi snelli quali
Run to the Hills e
Wasted Years maratone sonore del calibro di
Phantom of the Opera e
Seventh Son of a Seventh Son (se penso che non la sentirò mai più dal vivo mi vien da piangere).
Che
Iron Maiden non identifichi la vera chiusura dello show lo sanno anche i sassi; eppure, in tanti rimangono piacevolmente sorpresi quando odono il rombo dei motori e il celeberrimo discorso di
Churchill.
Aces High viene cantata a squarciagola (e con notevole fatica, come si potrà immaginare) da ogni presente; lo stesso può dirsi per la epica cavalcata di
The Evil That Men Do.
Alla già citata
Sanctuary tocca l’ingrato compito di spegnere la giostra dopo un’ora e tre quarti di emozionanti montagne russe.
Le luci sul palco ci mettono sempre troppo ad accendersi, tanto che alcuni sperano ancora in un paio di brani a sorpresa; ahimè, la beffarda
Always Look on the Bright Side of Life di Pythoniana memoria sancisce che così non sarà.
Mentre esco dall’
Arena Joe Strummer ho gli occhi ancora spalancati e lucidi per la gioia di aver assistito all’ennesimo concerto memorabile, anche se una punta di amarezza ovatta la soddisfazione: anche per quest’anno, la mia razione live di
Maiden si è esaurita. Ma non tutto è perduto: in effetti, prevedo un nuovo album e un nuovo tour nel 2015.
I’ll Be Ready, come cantava
Jimi Jamison nella sigla di
Baywatch.
OUTROSiamo giunti alle conclusioni, a quanto pare.
Credo che tutti i presenti possano dirsi soddisfatti di questo Day 3: il sole picchiava ma in modo sopportabile, l’evento è stato ben organizzato, il Pit Ticket costa ma è indubbiamente una figata (perdonate il gergo giovanile), gli orari sono stati rispettati e i bagni erano più presentabili del solito. L’unica nota di perplessità riguarda il bill, davvero carente in apertura (esclusi i poveri
Pavic, che non ho avuto modo di ascoltare e coi quali mi scuso) e assemblato in modo piuttosto casuale. Certo che noi metallari non siamo mai contenti…
Up the Irons, e chiudiamola così!
Live report di
Marco Cafo CaforioSetlist:
EXTREMA1- Between the Lines
2- Deep Infection
3- Selfishness
4 – The Positive Pressure (of Injustice)
5- Pyre of Fire
6- Again and Again
7- Money Talks
8- From the 80’s
9- This Toy
10 - Life
BLACK STONE CHERRY1- Maybe Someday
2- Me and Mary Jane
3- Yeah Man
4- In My Blood
5- Blind Man
6- White Trash Millionaire
7- Blame it on the Boom Boom
8- Lonely Train
OPETH1- Deliverance
2- Heir Apparent
3- The Devil’s Orchard
4- Atonement
5- Demon of the Fall
6- Blackwater Park
ALTER BRIDGE1- Addicted to Pain
2- White Knuckles
3- Find the Real
4- Farther than the Sun
5- Come to Life
6- Cry of Achilles
7- Ghost of Days Gone by
8- Fortress
9- Ties that Bind
10- Metalingus
11- Blackbird
12- Rise Today
13- Isolation
IRON MAIDEN1- Moonchild
2- Can I Play with Madness
3- The Prisoner
4- 2 Minutes to Midnight
5- Revelations
6- The Trooper
7- The Number of the Beast
8- Phantom of the Opera
9- Run to the Hills
10- Wasted Years
11- Seventh Son of a Seventh Son
12- Wrathchild
13- Fear of the Dark
14- Iron Maiden
Encore
15- Aces High
16- The Evil that Men Do
17- Sanctuary