La solita corsa contro il tempo verso l’appuntamento live
meneghino, nell’occasione si rivela meno problematica del solito, e, infatti, tutto procede per il meglio, tuttavia solo al momento di prendere posto all’interno dell’Alcatraz mi rendo conto di come mi fossi scordato di approfondire la conoscenza degli opener della serata, quei
Reignwolf, a proposito quali mi sembrava di ricordare che fossero una one man band ben poco
canonica.
A sorpresa sul palco ritrovo tre musicisti, e al posto dei temuti loop e sperimentazioni assortite ecco che dagli speakers fluisce un Rock Blues distorto, ipnotico, minimale e ben poco lezioso.
Il mastermind del gruppo, Jordan Cook, rinuncia all’apporto dei due session che lo accompagnano, comunque bravi, per prendere il totale possesso del palco alternandosi alla chitarra e dietro al drum kit, in occasione di “Electric Love”, a dispetto delle premesse uno dei momenti migliori del loro set, assieme a “Mandolin Song” (con Cook che si propone anche al mandolino elettrico) e alle massicce e fortemente
seventies “In The Dark” e “Are You Satisfied?”
E noi lo siamo? Direi proprio di sì, anche se il meglio è alle porte…
Sergio Rapetti Dopo aver diviso il palco di Bologna con i mitici Black Sabbath, i
Black Label Society si presentano all’Alcatraz di Milano per un altro incontro con i tanti fans tricolore. Il locale, infatti, è piuttosto affollato, segno che il feeling con il pubblico italiano non accenna a scemare anche col trascorrere del tempo.
Con precisione cronometrica, poco dopo le ventuno, il grande telone con il logo della band viene abbassato e si parte con “My dying time”, brano cadenzato e meno aggressivo della media. In effetti sarà una costante della serata, apparsa meno intensa e rocciosa di quella vissuta a Collegno (To) circa tre anni fa (..sembra ieri. Più si invecchia e più il tempo scorre in fretta…nda).
La scaletta prevede alternanza di classici massicci, come “Godspeed hellbound” o la micidiale “Parade of the dead” da "Order of the Black", ma anche qualche sorpresa tipo la vetusta “The rose petalled garden” dal lontano “Sonic Brew”.
Come sempre, la star assoluta è l’irsuto chitarrista/cantante, diventato ormai un credibile incrocio tra un orso ed un boscaiolo statunitense. Però questa volta il buon Zakk limita i suoi atteggiamenti da “Ted Nugent del Nuovo Millennio”, a parte il torrenziale assolo che funge da ponte tra la prima e la seconda parte dello show. Sempre impressionante, anche se alla lunga un po’ stucchevole. O forse non siamo più abituati a questo tipo di performance, retaggio degli anni ’70.
Spendiamo due parole per l’altro protagonista sul palco: il barbuto bassista “paesano” John DeServio, fedelissimo di Wylde, assai apprezzato dal pubblico non solo per le sue conclamate origini italiane.
Si passa poi al momento struggente con “In this river” dedicata allo scomparso Dimebag Darrel, seguita da “The blessed hellride” suonata con le chitarre a doppio manico, che scatena il coro dei presenti. Il finale è, come da copione, la deragliante “Stillborn”. Altrettanto tradizionale il fatto che i BLS non concedano bis, essendo formazione che preferisce impegnare tutte le energie nella lista di canzoni prevista.
Nell’insieme un buon concerto, cosa assolutamente scontata tenuto conto dell’applicazione e della professionalità del quartetto, pur se meno esplosivo rispetto ad altre occasioni.
Setlist: My Dying Time
Godspeed Hell Bound
Destruction Overdrive
The Rose Petalled Garden
Heart of Darkness
Overlord
Damn the Flood
Guitar Solo
Parade of the Dead
Angel of Mercy
In This River
The Blessed Hellride
Suicide Messiah
Concrete Jungle
Stillborn
Fabrizio “Stonerman” Bertogliatti
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