Non mi ritengo particolarmente superstizioso, eppure un pizzico di apprensione per l’avvicinarsi del venerdì 17 l’ho da sempre. Ed ecco che svegliarsi con la guancia gonfia per un ascesso a un molare che in teoria, a detta del mio dentista, dopo la devitalizzazione non avrebbe mai più dovuto darmi fastidio, non è un bel modo per approcciare una giornata così “particolare”.
Neanche questo contrattempo ha, tuttavia, potuto fermare la notevole curiosità che questo
ehm, “vecchio leone” da concerto (si fa per dire ovviamente … molto “spelacchiato” e oggi dal viso simile a quello di un criceto!) nutriva per i “nuovi”
Accept, condotti (anche se il vero “capitano” qui, in realtà, è un incontenibile Wolf Hoffmann …) da un Mark Tornillo in ottime condizioni di forma, per nulla intimorito dalla “gravosa” situazione.
Pur lasciando il doveroso approfondimento alla devozione e alla cultura specifica di Sergio, voglio comunque sottolineare la prova generosa dei teutonici, molto “fisica” e concreta, con poche pause, minime concessioni al “dialogo” e con molto “metallo”, saggiamente suddiviso tra gli svariati capisaldi del passato e i possenti frammenti di un più che dignitoso presente.
La serata era, però, iniziata con i
Damnation Day, giovane formazione di
heavy /
thrash di “belle speranze”, almeno a voler dar credito ai commenti positivi con cui è stato accolto dalla comunità metallica il loro “Invisible, the dead”.
Sarà perché era la prima volta che affrontavo il loro repertorio, sarà la tensione che verosimilmente attanaglia gli emergenti al cospetto del pubblico di un colosso come gli Accept, o saranno, forse, gli effetti dell’antibiotico che mi annebbiano i sensi, ma francamente ho trovato la simpatica
opening-band australiana piuttosto anonima, discreta tecnicamente (il cantante Mark Kennedy è bravino quando si tratta di “salire”, mentre non mi ha convinto sui toni medio-bassi) e non troppo efficace sotto il profilo della scrittura, devota ai codici dell’
US Metal senza ostentare mai autentiche scintille.
Non bastano un paio di pezzi abbastanza riusciti (“Lucid dreaming” e “I am”) per spazzare via una domanda “epocale”, fomentata pure dall’assoluto disinteresse che gli astanti riservano al loro banchetto del
merchandising: possibile che non ci fosse niente di meglio sulla “piazza” da affiancare ai maestri della siderurgia tedesca?
A cura di Marco Aimasso
Quando nel 2010 hanno deciso di tornare a fare sul serio, hanno giustamente intitolato una delle loro canzoni "Teutonic Terror", e mai titolo poteva essere più azzeccato - per quanto al microfono ci sia un cantante statunitense: Mark Tornillo - dato che gli
Accept possono indubbiamente essere considerati l'incarnazione del Metal Tedesco.
Con la nuova formazione hanno inciso tre nuovi dischi, in grado di non far sentire troppo la nostalgia dei vecchi brani, e le nuove composizioni rendono alla grande anche dal vivo. Impossibile quindi storcere il naso di fronte alla nuova "Stampade" cui è affidato il compito di aprire il concerto, seguita a ruota da un'altra manciata di pezzi recenti, tra quali "Stalingrad" fa davvero un figurone.
Nessun appunto nemmeno a Mark Tornillo, che parte un po' in sordina ma poi viene fuori alla grande con una prova vocale di grande spessore anche se non agli stessi livelli per capacità di intrattenimento. Bisogna comunque ammettere che non è facile dividere la scena con Wolf Hoffmann, un vero animale da palco, lesto a sfoggiare tutto il repertorio del
vero chitarrista metal, un altro di quelli che - come Jeff Waters - riesce ai piazzarti un riff assassino con il sorriso stampato sulle labbra.
Scorrono i pezzi ed il primo balzo nel passato - sino a oltre venti anni fa - avviene in occasione di "Losers and Winners" subito bissata da "London Leatherboys" (entrambe dal seminale "Balls to the Wall"), e nel frattempo si ha la conferma di come Herman Frank preferisca starsene a suonare un po' in disparte mentre il bassista Peter Baltes si arrischi a prendere il centro del palco andando a affiancare un'incontenibile Hoffmann. Nascosto dietro il suo drum-kit Stefan Schwarzmann, un altro che di Heavy Metal ne ha masticato parecchio (qua e là...), riesce a farsi notare dando sonore mazzate a destra e a manca.
Con "Starlight" si va indietro di un altro paio di anni (era su "Breaker" del 1981) prima di tornare al presente con alcuni estratti dal recentissimo "Blind Rage", quali "Dying Breed", "Final Journey" e "From the Ashes We Rise", che non sono niente male ma non reggono il confronto con il pathos che è stato in grado di sprigionare l'emozionante "Shadow Soldiers" (inclusa sull'ottimo "Stalingrad").
Ma è sul finale che ci aspettano i momenti migliori, con i classici che fanno capolino e fanno chiarezza sull'importanza e sul valore degli Accept, vere opere d'arte come "Restless and Wild", "Princess of the Dawn" (in assoluto uno dei miei pezzi preferiti), "Fast as a Shark" e quella "Metal Heart" cui è assegnato il compito di aprire i bis che poi si chiudono sulle note di "Balls to the Wall".
Una lezione di storia del Metal in meno di mezz'ora. E il resto non ha certo deluso.
You'll get your balls to the wall, man!
A cura di Sergio Rapetti
Setlist:Stampede
Stalingrad
Hellfire
2000 Years
Losers and Winners
London Leatherboys
Starlight
Dying Breed
Final Journey
Shadow Soldier
From the ashes we rise
Restless and Wild
Ahead of the Pack
No Shelter
Princess of the dawn
Dark side of my heart
Pandemic
Fast as a shark
Encore:Metal Heart
Teutonic terror
Balls to the wall
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