Dopo un estenuante (cioè, volevo dire “interessantissimo”) convegno in quel di Milano, anelo al concerto dei
Morbid Angel come fosse un’oasi di delizia in un deserto di tedio assoluto (anzi, intendevo “di prezioso aggiornamento professionale”).
Perciò, affronto il tragitto sino a Bologna incalzato dal vento dell’entusiasmo; tuttavia, una volta a destinazione, ecco che un muro di amarezza ne soffoca la spinta.
Si tratta di un discorso annoso, e so che in altre località dello Stivale (chi ha detto Roma?) la situazione è ancor peggiore, ma entrare all’
Estragon e imbattermi in poche centinaia di anime mi rattrista alquanto -oltre a fornirmi uno spiacevole senso di déjà vu-.
Inutile recriminare, sofistico tentare di rinvenirne i motivi (basta che giuriate davanti a
Lucifero di non esser rimasti sul divano a guardare
X Factor). Comunque non ve n’è il tempo: il gruppo spalla ha già fatto il suo ingresso sul palco.
METHEDRASLa band di Monza ci ha provato, gliene va dato atto; a voler ben vedere, ci prova dal 1996 (anno di fondazione), senza mai riuscirci sino in fondo.
Lo show di stasera appare emblematico di una carriera spesa ad inseguire -invano- lo spettro della consacrazione: il quartetto si sbatte, suona bene, propone un thrash metal che pesca dal songwriting dei
Testament (periodo
The Gathering) e lo arricchisce con venature death e riff spezzati alla
Fear Factory, possiede un repertorio colmo di potenza e groove… eppure manca il quid, il guizzo capace di far compiere il definitivo cambio di passo.
Così, la performance scorre piacevole (
Death-o-cracy l’highlight) ma non memorabile, tra l’indifferenza generale -i cori lanciati dal bravo singer
Claudio Facheris cadono spesso nel nulla- e l’inevitabile attesa per gli Dei del death floridiano.
Purtroppo, nemmeno il commiato è dei migliori: mentre ancora i Nostri stanno eseguendo l’ultimo brano in scaletta (se non erro
Brawl dal recentissimo
System Subversion), i tecnici degli headliner iniziano a scaricare e montare la strumentazione sul palco -quei tre minuti guadagnati erano così vitali?-.
Oltre a ciò, la cantante che viene introdotta sul palco (non ne ho colto né il nome né il motivo, mi perdonerete) si rende autrice di una performance impacciata a livello di presenza scenica e poco felice sotto il profilo canoro (emissione e “spessore” del growling vanno rivisti). Morale: se ha funzionato con
Angela Gossow -e anche lì ci sarebbe da discutere- non è detto che debba funzionare sempre.
Appunti a parte, i
Methedras si confermano l’ennesima, bella realtà tricolore che meriterebbe miglior sorte ma che, salvo scossoni difficili da pronosticare, faticherà a schiodarsi dall’underground più buio.
In ogni caso continuate a provarci, mi raccomando.
MORBID ANGELMi spiace: non c’è storia.
Oggi come oggi si possono scovare decine di giovani death metal band che surclassano i
Morbid Angel in termini di ispirazione compositiva e di resa in uno studio di registrazione; al contrario, se ci soffermiamo sulla sfera live, i giovani alunni hanno ancora molto, molto da imparare dai Maestri.
Gioiose, letali, inarrestabili armi di distruzione di massa: questo l’unico modo per descrivere i quattro musicisti impegnati sulle assi dell’
Estragon.
Tim Yeung si rivela motore instancabile e di grande affidabilità dietro le pelli; non saremo ai livelli di
Pete Sandoval (uno dei miei batteristi favoriti prima che perdesse il senno e passasse tra le fila nemiche), ma lamentarsi sarebbe folle.
Destruchtor guadagna sempre più spazio vitale in seno alla band e considerazione agli occhi dei fan grazie al suo approccio alla sei corde, vigoroso e precisissimo al tempo stesso. Letteralmente indemoniato sulle ritmiche, meno irresistibile sui (pochi) solos a lui concessi: tanta pulizia, tanta leva del vibrato ma poca fluidità e “scioglievolezza”.
Poco male: a quello pensa
Azagthoth.
Viso coperto dalla folta chioma (neanche fosse
Slash), pronto a falcidiare l’audience coi suoi incredibili tapping (neanche fosse
Eddie Van Halen), il buon
Trey si rende autore di una prestazione mostruosa; peccato che i suoni, potenti ma un pelo impastati, sviliscano l’impatto di alcuni passaggi.
David si conferma frontman essenziale ma efficace: dotato di grande carisma e presenza scenica intimidatoria (è bello grosso in effetti), il Nostro vanta altresì ottima tecnica al basso e uno dei migliori growl in circolazione.
Chi, come me, ha avuto modo di osservarli col pur bravo
Steve Tucker in lineup non potrà non essersene accorto:
Vincent sarà un personaggio discutibile quanto volete ma resta lui l’unico, vero cantante dei
Morbid Angel.
La scaletta, semplicemente, non può deludere: per celebrare (ormai in ritardo, trattandosi di un album del ’93) il compleanno di
Covenant, i quattro han ben pensato di riprodurlo nella sua interezza, seguendone in modo pedissequo la tracklist.
Non sempre questo tipo di operazioni, piuttosto in voga negli ultimi tempi, incontra la mia approvazione; d’altra parte, vista la caratura dell’opera in discussione, non me la sento di criticare la scelta. Parliamo di un caposaldo dell’intero movimento death statunitense, di un disco che ai tempi incontrò un inimmaginabile successo commerciale, che in tanti considerano il migliore della band e, nel contempo, il loro ultimo capolavoro.
Se me lo permettete, esprimerei il mio moderato dissenso (figuriamoci): ho sempre reputato
Domination quantomeno all’altezza dei suoi predecessori, e a
Covenant ho sempre preferito il debut
Altars Of Madness.
Quisquilie, comunque sia: godere di autentici classici senza tempo del calibro di
Angel of Disease,
Rapture e
God of Emptiness è un autentico tuffo al cuore in grado di riconciliare con una band che, nei suoi anni migliori, ha avuto pochissimi rivali.
Senza pause né perdite di tempo giungiamo lesti alla porzione di concerto dedicata ai pezzi extra-
Covenant, inaugurata dalla mastodontica
Where the Slime Live (per lo scrivente uno dei 3-4 pezzi più belli del loro repertorio e miglior assolo di
Trey a mani basse) e seguita dalla ottima
Bil Ur-Sag.
Ci accorgiamo presto che ogni lettera dell’alfabeto (eccezion fatta per la E, che come ricorderete era un live album) viene rappresentata da un brano; quindi ecco
Ageless, Still I Am dal discreto -o forse qualcosa in meno-
Gateways to Annihilation,
Curse the Flesh dal fiacco
Heretic ed
Existo Vulgoré dall’infausto
Illud Divinum Insanus.
Dal vivo questo trittico guadagna non poco, ma lo scarto con la produzione più datata appare lampante. Se qualcuno nutriva dubbi in proposito, ci pensano le lettere A e B a fugarli: le leggendarie
Immortal Rites (da
Altars of Madness) e
Fall From Grace (da
Blessed Are the Sick), eseguite alla perfezione, chiudono nel modo migliore un set tanto breve -nemmeno 90 minuti- quanto entusiasmante.
Che dire? I pochi presenti hanno dimostrato lungimiranza, e sono stati premiati da una esibizione di rara cattiveria, potenza, qualità esecutiva ed intensità. Se poi i nostri cari
Morbid Angel volessero ricordarsi di portare queste qualità anche in studio allorquando decideranno di dare i natali all’album J, saremo loro ancor più grati.
Per ora va benissimo anche così.
MORBID ANGEL setlist:
01-
Rapture02-
Pain Divine03-
World of Shit04-
Vengeance is Mine05-
Lion’s Den06-
Blood on my Hands07-
Angel of Disease08-
Sworn to the Black09-
Nar Mattaru10-
God of Emptiness11-
Where the Slime Live12-
Bil Ur-Sag13-
Ageless, Still I Am14-
Curse the Flesh15-
Existo Vulgoré16-
Immortal Rites17-
Fall From GraceReport di
Marco Cafo CaforioFoto di
Marco MantovaniUn ringraziamento speciale ad
Andrea Piazzi