Settimana di ferragosto decisamente densa in quel di Pinarella di Cervia: dopo
Devin Towsend lunedì 11 e i
Down di
Phil Anselmo il 12, tocca ai
Combichrist calcare il palco del noto
Rock Planet. Il sottoscritto si sarebbe concesso la tripletta ben volentieri, ma lavoro e pecunie (o, piuttosto, la loro assenza) hanno suggerito altrimenti.
Poco male: ci pensa un bel crescione -variante farcita e chiusa della piadina- a dissolvere le scorie dell’amarezza, ben disponendomi nei confronti dell’imminente evento. Le successive birre, tuttavia, contribuiscono a renderlo meno imminente, complice anche l’aria fresca e la presenza, nel bar prescelto, di alcuni pittoreschi fan del combo svedese. Il loro look, ben più curato e appariscente rispetto a quello del classico metallaro da jeans e maglietta nera, attira sguardi che svariano dal perplesso al divertito, passando per l’attonito, da parte degli avventori “normali” (i quali, se mi si concede la chiosa, sfoggiano tenute da mare che suggerirebbero prudenza nel giudicare quelle altrui).
Così, immersi in questo improbabile melting pot stilistico, ci attardiamo sino al punto di saltare a piè pari la performance del gruppo spalla: trattasi di un trio americano dedito a sonorità elettroniche, tali
Aesthetic Perfection, che confesso senza imbarazzi di non conoscere affatto.
Gli headliner, invece, avevo avuto modo di apprezzarli di supporto ai
Rammstein, in quel di Villafranca nel 2010, appassionandomi al loro aggrotech lontano anni luce dai miei ascolti abituali.
Dopo aver constatato che i presenti in sala, seppur non numerosissimi in termini assoluti, superano di gran lunga le mie torve previsioni, mi avvicino al piccolo palco sul quale, a seguito della classica intro, spuntano i quattro scandinavi.
Anch’essi truccati e agghindati di tutto punto, i
Combichrist chiariscono sin dall’opener (
This is my Rifle) che non si risparmieranno: davvero dinamici, coinvolti, aggressivi e per di più sospinti dal frontman
Andy LaPlegua, che pare aver trovato la definitiva quadratura del cerchio in termini di presenza scenica mescolando la minacciosa possanza di
Till Lindeman alla paranoica alienazione di
Keith Flint.
I suoni, un pelo bassi, si rivelano comunque nitidi e ben calibrati, garantendo alla band la possibilità di rappresentare al meglio tanto l’anima industrial del loro sound quanto le parentesi più squisitamente metal (sulle quali, a dire il vero, s’impantana sovente in un acquitrino di soluzioni scolastiche).
Senz’altro soddisfacente la scaletta, che come ovvio alterna agli estratti dell’ultimo
We Love You -celebrato in sede di recensione dalla nostra bravissima Laura ma a mio avviso piuttosto spompo- numerosi ripescaggi dalla passata discografia:
Blut Royale,
Get Your Body Beat e
Shut Up and Swallow riescono a scaldare i presenti (in generale freddini, prime file a parte) con le loro ritmiche marziali e il loro incedere danzereccio.
Dopo la canonica sosta, contraddistinta dal siparietto del drummer
Joe Letz, il quale riconsegna imbarazzato una sigaretta chiesta a un ragazzo del pubblico dopo aver scoperto che non era caricata esattamente a tabacco, si riparte coi bis, che prevedono la presentazione dei membri della band e il congedo con l’immancabile
What the Fuck is Wrong with You? fra gli applausi convinti della platea. Giusto tributo a un ottimo concerto.
Ci si sposta quindi nell’estivo del locale, ma per poco: dopo un inizio di dj set dolcemente familiare (
Dimmu Borgir e
Fear Factory, per citarne un paio) ci si smarrisce troppo presto nei meandri di un tunz tunz eccessivo anche per un metaller di larghe vedute come me. L’ennesima secchiata di pioggia di questa bizzarra stagione funge da pietra tombale alla serata, convincendoci ad abbandonare il
Rock Planet.
Abbiamo senz’altro preso parte ad una bella serata, ben organizzata e diversa dal solito. Certo, per ricominciare a gustare il sapore di casa ho dovuto assistere al concerto dei
Testament dopo appena cinque giorni, ma questa è un’altra storia...
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