Caro
Devinino mio, stanne pur certo: anche se l’ultimo album
Z² si è rivelato una mezza delusione, non vedevo l’ora di assistere di nuovo a un tuo concerto…
Non devo essere il solo, visto che trovare parcheggio nelle vicinanze del Live è impresa ardua. Una volta entrato nel locale, mi convinco ancor più che la virtuosa decisione di smettere di bestemmiare, presa anni orsono, porta con sé forti controindicazioni.
Peripezie autostradali, ahimè, mi privano del piacere di assistere alla performance degli
Shining. Non parliamo di uno dei miei gruppi favoriti, ma un paio di sacramenti scanditi a dovere e di buona qualità li proferirei comunque volentieri: ero curioso di saggiare dal vivo lo strampalato sound in bilico tra jazz, metal estremo ed elettronica varato dalla formazione norvegese. Tra l’altro, da quel che odo in giro per la sala, pare che la band capitanata da
Jorgen Munkeby si sia resa protagonista di un’esibizione molto positiva.
Non mi resta che sperare nel buon prosieguo della serata…
PERIPHERYLa mia incrollabile onestà (?) impone una confessione preliminare: nei piani iniziali avrei dovuto condividere gli oneri di reporter col buon
Gandy, il quale, si sa, nel mare magnum del metal “moderno” -diciamo così- ci sguazza eccome. Il sottoscritto, che in quelle fosche acque riesce appena a rimanere a galla, era convinto che sarebbe stato l’esimio collega a trattare del gruppo a stelle e strisce. Purtroppo, la sopravvenuta impossibilità a partecipare da parte di
Andrea fa sì che spetti a me descrivervi l’esibizione dei
Periphery.
Le perplessità, invero, si dissipano dopo pochi minuti, sufficienti a rendersi conto di quanto talento siano dotati i Nostri.
Bisognerebbe esser sordi per non accorgersene.
I riffoni slabbrati e contorti di matrice djent vengono eseguiti con precisione chirurgica, facendomi scapocciare di gusto; i tre chitarristi in formazione, tra l’altro, permettono ai Nostri di creare grande densità in termini di sound, materializzando un amalgama compatto eppur eclettico.
Analogo risultato ottiene la sezione ritmica, tecnicamente preparatissima e capace di sprigionare un groove tremendo.
Da ultimo, il singer
Sotelo riesce immantinente a farsi perdonare i capelli rosa e una pettinatura a metà tra quella di
Marco Borriello e un mohawk. Come? Beh, con una prestazione monstre che coniuga naturalezza, varietà ed estensione vocale, il tutto senza rinunciare a una presenza piuttosto dinamica (caratteristica di cui gli altri componenti difettano un po’).
Dato a Cesare quel che è di Cesare, e riconosciute le tante doti positive che i baldi giovincelli sul palco dimostrano di possedere, fatemi ora svolgere il ruolo di greve metallaro old school (ma non vecchio!): le canzoni, dalle trame generalmente articolate e ben costruite, mi paiono talvolta inciampare in eccessi di autoindulgenza. Autoindulgenza che si traduce in alcune sovrastrutture di troppo e in qualche sfoggio di pura cerebralità avulso dal tessuto compositivo.
Inoltre, le fasi lamentose e miagolanti da cui il genere di appartenenza non pare in grado di affrancarsi m’irritano sempre quanto un chilo di sabbia nel letto.
Ma qui si entra nel campo dei gusti personali. I fatti dicono che i
Periphery si rendono protagonisti di una performance davvero convincente, che pezzi come
Icarus Lives! e
Psychosphere vengono eseguiti alla perfezione e che il pubblico dimostra di gradire non poco.
L’aggressiva
Graveless sancisce la chiusura di uno show di alto livello, cui è giusto tributare applausi convinti.
Nella penombra della mia cameretta continuerò ad ascoltare
Enslaved e
Negura Bunget, questo è sicuro, ma stasera alcune delle mie storiche resistenze nei confronti di tutto quanto sia anche lontanamente riconducibile all’universo *core hanno iniziato ad incrinarsi.
Bravi davvero.
DEVIN TOWNSEND PROJECTLe divertenti immagini proiettate sugli schermi ai lati del palco mitigano l’attesa per l’esibizione del canadese. Mitigano, ma non sopiscono, tanto che nell’attimo in cui le luci si spengono tutti i presenti vengono scossi da un brivido d’eccitazione.
L’ingresso della band sul palco non fa che aumentare il pathos.
Quello di
Devin e della sua chitarra fluorescente ancor più.
L’attacco della meravigliosa
Truth completa l’opera.
Segue
Fallout che, al pari di
Rejoice -eseguita successivamente- non riesce a farmi mutare opinione circa la scarsa qualità del già citato
Z².
Per fortuna segue un autentico colpo al cuore:
Namaste, opening track di
Physicist (2000), grandioso album che, ai tempi dell’università, avevo sviscerato più a fondo di diritto privato.
Quanto percepito nelle prime due canzoni, tuttavia, emerge con fragore durante la terza esecuzione -impeccabile, in ogni caso-: la resa audio cede il fianco a più di una critica. Il guitar sound esce leggermente impastato, e un chiaro sbilanciamento dei volumi rende il drummer
Van Poederooyen una sorta di monarca assoluto in grado di sovrastare gli altri musicisti.
A farne le spese è soprattutto
Mike St-Jean, il cui prezioso lavoro di effettistica viene pressoché vanificato e reso inudibile lungo tutto l’arco della serata (anche se la calibrazione migliorerà man mano).
Torniamo alla scaletta: superbe anche
Night, memento della grandezza di
Ocean Machine, e
Storm, uno degli episodi più suggestivi di
Accelerated Evolution (2003).
Il bacino di canzoni da cui
Townsend può attingere è quasi senza fondo, e lamentarsi per la mancanza di questo o quel brano sarebbe ridicolo: semmai, si può gioire per la riproposizione di autentiche chicche del calibro di
Hyperdrive,
Addicted!, la countryeggiante (che schifo di neologismo)
Heatwave o
Lucky Animals, la quale mette in mostra la disarmante semplicità con cui
Devin riesce a coinvolgere e trascinare i propri fan -dopo averli scherzosamente apostrofati come nerd-.
Il Nostro, in effetti, si conferma il solito buontempone: carismatico, sorridente, scazzato e sempre pronto alla battuta, ma senza mai perdere concentrazione o andar troppo sopra le righe. Sulle doti canore e chitarristiche, poi, non sembra nemmeno necessario spender parole.
La cadenzata
March of the Poozers, questa sì, mi permette di guardare all’ultimo lavoro con occhio più benevolo; la successiva, al contrario, verrà catalogata dal sottoscritto come il piccolo rimpianto di serata.
Forse la mia canzone favorita dell’intera discografia deviniana,
Life viene azzoppata da un’interpretazione vocale arrancante (soprattutto durante il ritornello), mentre l’indimenticabile melodia di chitarra rimane seppellita nel mix sonoro e non spicca come avrebbe dovuto.
Peccato.
Ci pensa
Christeen a riappacificarmi col mondo e a chiudere la prima parte dello show;
Townsend, anziché seguire il resto della band dietro al palco, vi rimane sopra solo soletto, chiarendo col consueto humor quanto ritenga stupido il cliché dei bis.
Ciò che più conta, ci omaggia di una versione “autogestita” della delicatissima
Ih-ah!:
Anneke manca, inutile negarlo, ma l’intensità dell’interpretazione è da brividi.
Brian Waddel,
Dave Young e compagnia fanno ritorno per eseguire l’immensa
Kingdom, che chiude uno show senz’altro breve (appena 75 minuti), senz’altro imperfetto, ma colmo di momenti memorabili e di grande, grandissima musica.
Non perdiamoci di vista,
Devinino mio.
Live report di
Marco CaforioFoto di
Giulia BianchiDEVIN TOWNSEND setlist:
1 –
Truth2 –
Fallout3 –
Namaste4 –
Night5 –
Storm6 –
Hyperdrive7 –
Rejoice8 –
Addicted!9 –
March of the Poozers10 –
Lucky Animals11 –
Heatwave12 –
Life13 –
ChristeenEncore:
14 –
Ih-Ah!15 –
Kingdom