La cosa ha quasi dell’incredibile … ce l’ho fatta! Ci sono volute quattro edizioni di questo fantastico evento dedicato al mio genere musicale preferito, ma finalmente, nonostante gli “inevitabili” inconvenienti (che hanno costretto me e l’inossidabile
Ermo ad un rientro nella capitale sabauda tra il primo e il secondo giorno ...), ho potuto godermi il
Frontiers Rock Festival del 2017 nella sua interezza.
Una grande soddisfazione che passa per il compiacimento di essere ancora in grado di “reggere” fisicamente a una ventina di ore di musica dal vivo e giunge, soprattutto, alla consapevolezza che il
Festival dell’etichetta partenopea è diventato un momento imprescindibile per tutti gli estimatori del settore, un esempio di professionalità organizzativa e competenza nelle scelte artistiche, equamente suddivise tra “veterani” (tra cui svariati “eroi personali” del sottoscritto) in smaglianti condizioni di forma e “emergenti” di valore e prospettiva.
Una valutazione complessiva su una manifestazione che però non era iniziata nel migliore dei modi ... la prestazione dei
Palace, inficiata da evidenti problemi tecnici, non è stata, infatti, per nulla esaltante.
Un vero peccato, dal momento che alla luce del “fresco”
curriculum di
Michael Palace (Find Me, First Signal, Cry of Dawn, …) e del godibile debutto della sua
band (“
Master of the universe”) le aspettative erano abbastanza elevate.
La piacevolezza armonica di brani molto rigorosi e tuttavia ben congeniati viene
ahimè affossata da una prestazione esecutiva assai approssimativa, particolarmente deficitaria nella voce del simpatico
Michael che nell’occasione non “azzecca” un coro e quando si tratta di “salire” dimostra limiti molto evidenti, tanto da lasciar addirittura sospettare qualche acciacco di tipo otorinolaringoiatrico. Non basta l’efficace carattere
anthemico di “
Cool running”, “
Man behind the gun” e “
Part of me”, se poi a rimanere impressa è l’imbarazzante
performance canora nella pur ficcante
title-track dell’albo d’esordio.
Rimandati.
Andiamo meglio, e molto, con i successivi
One Desire, giovani (ma con un buon bagaglio di esperienze artistiche all’attivo ...) di “belle speranze” davvero bravi a catalizzare l’attenzione del pubblico del
Live Club con la loro intrigante e scaltra miscela di
hard melodico,
pomp e
pop rock.
Capitanati da un sempre ottimo e disinvolto
André Linman (di fama Sturm und Drang) i finnici coinvolgono fin da subito con le loro canzoni a “presa rapida” che dal vivo acquisiscono ulteriore nerbo e tensione emotiva.
L’inno che apre la loro esibizione (e il loro esordio auto-intitolato), “
Hurt”, e delizie ammiccanti come “
Turn back time” e “
Apologize” attestano le considerevoli qualità melodiche di una
band dal presente convincente e dal futuro luminoso (soprattutto se riusciranno a emendare quel pizzico di retorica che oggi contraddistingue alcune delle loro composizioni ... vedasi la solo piacevole “
Whenever I'm dreaming” ...), mentre la conclusiva “
Buried alive” dimostra che anche in fatto di grinta i nostri sanno farsi rispettare.
Promettenti.
La loro fama di “animali da palco” li precedeva e bisogna ammettere che i
Crazy Lixx oggi l’hanno onorata in maniera egregia, forse anche stimolati dalla presenza degli
L.A. Guns nel prestigioso
bill del
Festival.
Se le loro ultime prove discografiche (compreso l’ultimo “
Ruff justice“) mi hanno fornito sensazioni contrastanti, dal vivo gli svedesi garantiscono una bella ventata di “good vibrations”, in un canovaccio espressivo che onora l’attitudine “stradaiola” del
glam-metal senza perdere di vista l’aspetto squisitamente melodico della questione.
Grinta, passione e disinvoltura caratterizzano una prestazione piuttosto convincente, da cui emerge la buona efficacia di pezzi nuovi come “
Wild child” (che apre l’esibizione), “
XIII” e “
Walk the wire”, mentre a “
Heroes are forever”, alla Crue-
esca “
Rock and a hard place” e a un’apprezzatissima “
21 til I die” è affidato il compito di scandagliare con gusto la storia della
band di Malmö. Bello l’
intro mutuato dal mitico “
1997 Fuga da New York”.
Bravi e divertenti.
Con gli
Eclipse è giunto il momento di fare davvero sul “serio”. Come già affermato in fase di recensione della loro ultima fatica discografica “
Monumentum”, gli svedesi sono tra i pochi gruppi del terzo millennio veramente all’altezza della grande tradizione melodica internazionale, una di quelle formazioni dal profilo artistico ormai ampiamente consolidato, da consegnare ai “posteri” senza l’ombra del benché minimo timore reverenziale. La sicurezza assoluta dimostrata da
Martensson & C. anche su di un palco non può che rappresentare l’ulteriore titolo onorifico da aggiungere a un medagliere che prevede solo fregi del metallo più nobile e raro, concessi per una schiacciante superiorità nei settori talento, personalità, cultura e capacità tecnico / interpretative.
Parlare di singoli brani in casi come questi diventa francamente superfluo ... difficile trovare un momento “debole” nel repertorio dei nostri e, di conseguenza, nella scaletta proposta in quest’occasione.
E allora citiamo solo le adrenaliniche ”
Vertigo”, “
Never look back” e “
Black rain”, perle irresistibili del nuovo
album, per poi godere una volta ancora di “
The storm”, “
Wide open”, “
I don't wanna say I'm sorry”, e delle devastanti “
Wake me up” e “
Battlegrounds” (eseguita in una versione elettro-acustica da brividi copiosi).
Aggiungiamo un inatteso
special-guest del calibro di
Michele Luppi (ottimo,
as usual ...) per l’esecuzione della splendida “
Jaded” (tratta ancora da “
Monumentum”) e la presenza in scaletta della sbarazzina “
Runaways” (con cui i nostri hanno partecipato al
Melodifestivalen del 2016 ... un’occasione importante per la visibilità dell’
hard-rock nella programmazione televisiva
mainstream, come rilevato con enfasi dallo stesso
Martensson) e completiamo l’entusiastica cronaca di un concerto memorabile.
Monumentali, nientemeno.
Avere la possibilità di vedere esibirsi assieme
Jack Blades,
Deen Castronovo e
Doug Aldrich è una cosa che ingolosisce anche il più smaliziato degli
chic-rockers, ragione di più se i tre “leoni”, supportati dal contributo fondamentale di
Alessandro Delvecchio, con la denominazione collettiva
Revolution Saints hanno anche sfornato un albo di debutto dall’enorme valore artistico.
Aggiungiamo che è la prima volta che i quattro si esibiscono dal vivo e non credo ci siano dubbi su che tipo di aspettativa ci fosse nei confronti di questa esibizione.
Un’attesa ripagata da una prestazione molto appassionante, con un
Blades strepitoso e trascinante come sempre, un
Castronovo entusiasta e vocalmente sorprendente, un
Delvecchio impeccabile (importantissimo il suo apporto nel pilotaggio dei cori) e un
Aldrich forse un po’ “freddo” e tuttavia efficace nel suo brillante
guitar-work.
Peccato che quando
Deen è impegnato nel doppio ruolo
vocalist / drummer la sua voce si percepisca un po’ a fatica (colpa del microfono “ad archetto”?) e che la magia “vera” si realizzi solo quando cede le bacchette a un capace collega (di cui mi è sfuggita l’identità …) e si concentra esclusivamente sul microfono ... “
Way to the sun”, “
Dream on” (introdotta da un sentito “
essere qui è un sogno che diventa realtà …”) e la toccante “
In the name of the father“ (dedicata al papà di
Serafino Perugino) sono momenti di vivida suggestione, che non si dimenticano facilmente.
L’esecuzione di tre frammenti della “storia” dei nostri fornisce un’ulteriore “botta emotiva” alla platea … “
Love will set you free” dei Whitesnake, “
Higher places” dei Journey e, soprattutto, la potente e raffinata “
Coming of age” dei Damn Yankees (un gruppo che adoro!) sono concreti attentati alle coronarie dei
fans del
rock melodico
yankee.
Emozionanti.
Del fatto che i
Tyketto avrebbero meritato molto di più di quanto ottenuto nella loro carriera artistica, ho già riferito in più occasioni su queste stesse colonne, e mi sa che sono in parecchi a pensarla come il sottoscritto, visto l’affetto dimostrato dal pubblico del
Live Club nei confronti della
band di
Danny Vaughn.
Insomma, anche se il nostro, come dichiara questa sera, ha dovuto rivedere nel tempo la sua concezione di “successo” (passando, nelle aspirazioni “economiche”, da una Maserati a una Toyota …) è innegabile che essere ancora così presente nel cuore di tanti
melomani ha un valore inestimabile. Tanto più che gli statunitensi, in occasione del suo anniversario, decidono di proporre per intero il loro debutto “
Don't come easy”, un disco praticamente irrinunciabile per quanti amano certi suoni raffinati e passionali.
E allora via, con esecuzioni impeccabili di “
Sail away”, “
Nothing but love”, ”
Seasons“, “
Burning down inside”, “
Wings “ e “
Forever young”, brani freschi come se fossero stati composti ieri e appassionanti come solo i grandi momenti di musica sanno essere.
Le sfavillanti condizioni di forma di
Mr. Vaughn destano ammirazione (e un pizzico d’invidia …), mentre i suoi
pards lo sostengono con una precisione davvero impressionante. Non c’è molto altro da aggiungere, se non sottolineare quanto i
bis di stasera arrivino a ricordare che anche “
Strength in numbers”, qui rappresentato dalla brillante “
Rescue me”, sia un prodotto di qualità e che pure il repertorio più recente dei
Tyketto, simboleggiato dalle
title-tracks dei loro ultimi due lavori in studio (“
Dig in deep” e “
Reach”) sia all’altezza della loro nobilissima storia.
Intensi.
Le vicende professionali degli
Steelheart sono note a tutti i
metalofili più attenti … due lavori di notevole impatto artistico, dominati dalla voce stentorea di
Michael Matijevic e poi una lenta decadenza, fatta di sfighe varie e tentativi non sempre efficaci di “ammodernamento” sonoro, che li hanno fatalmente condotti all’oblio. Poi arriva il
film “
Rock star”, che riporta in auge il nome di
Matijevic (è sua, in realtà, l’aitante ugola di
“Izzy” Cole), includendo altresì proprio una
cover di “
We all die young” (che sigilla con il suo andamento catalizzante la scaletta di stasera) degli
Steelheart nella controversa ma godibile pellicola.
L’ingresso nella scuderia della
Frontiers, che li porterà tra non molto a un lungamente atteso ritorno discografico, completa la “resurrezione” del gruppo e lo conduce a chiudere il primo tempo di quest’appassionante
Festival, non senza qualche malumore della comunità melodica, che nel ruolo di
headliner della giornata avrebbe probabilmente preferito qualcun altro (chi ha detto
Tyketto?).
Personalmente ho trovato l’esibizione degli statunitensi abbastanza ambigua … la prova del
singer è stata sicuramente di alto livello, ma il suo continuo
gigioneggiare mi è sembrato un po’ sopra le righe almeno quanto la
performance dell’istrionico bassista
Rev Jones (una sorta di
Flea più “metallico”).
Il suono, poi, è apparso fin troppo “carico”, e sebbene “
Blood pollution” e “
Livin' the life” (sempre griffate
Steel Dragon, i protagonisti del suddetto
film) siano pezzi piuttosto trascinanti, per i vecchi
fans è ovvio riservare un “orecchio di riguardo” a “
Gimme gimme”, “
Like never before” e all’accattivante “
Everybody loves Eileen” (con
Mike a cantare sul bancone del
bar), lasciando, infine, all’emozionante “
She's gone” e alle coinvolgenti “
Rock 'n' roll (I just wanna)” e “
I'll never let you go” l’onere di rivangare in maniera definitiva sentimenti mai sopiti.
Sorvolando su un superfluo
drum solo ed esprimendo qualche perplessità sul brano nuovo inserito in
setlist, giudico comunque abbastanza favorevolmente lo
show di una formazione molto “convinta” e non sempre altrettanto comunicativa.
Narcisisti.