(10 marzo 2009) Judas Priest... siano santificate le feste!!

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Provincia:MI
Costo:45 € + d.p.
La coppia d’inviati più saggia e navigata di Eutk (ovvero la più anziana…nda) torna in uno dei luoghi storici dei propri ardori giovanili. Quel PalaSharp milanese che, al tempo in cui fu PalaTrussardi, tenne a battesimo le prime clamorose esibizioni di bands come Metallica, Slayer, Venom, ecc (ma anche gli stessi Megadeth e Testament che ritroviamo stasera! ndSergio), ovviamente con i due inseparabili scrivani già presenti tra il pubblico.
A distanza di oltre vent’anni, ben poco è cambiato. Si continua a sgomitare, pigiati nella folla, anche per le solite, immancabili, discordanze tra programma degli eventi e concreta realtà dei fatti.
Problemi spiccioli, che scompaiono di fronte alla possibilità di assistere ad uno show di grande livello. Protagonisti tre nomi del calibro di Testament, Megadeth e Judas Priest, qui riuniti sotto l’egida di una Judas Feast, nel segno dell’heavy metal di altissima qualità.
L’importanza del concerto è testimoniata dalla notevole affluenza di appassionati da tutta Italia, malgrado il prezzo non proprio popolare. Su tale argomento si potrebbero fare alcune riflessioni, che rimandiamo però ad un tipo di spazio più adatto.
Qui ci concentriamo sulla pura cronaca, che vede i Testament salire per primi sul palco. Gli americani lo fanno con la grinta e la determinazione che da sempre li caratterizza. Il loro thrash poderoso e senza compromessi, investe e trascina subito il pubblico. La prima parte della loro esibizione è un attacco alle coronarie, grazie ad una raffica di classici come “Over the wall”, “The new order”, “Souls of black” e “Into the pit”.
Punti di forza, la massiccia presenza scenica e vocale di Chuck Billy ed il solismo debordante del grande Alex Skolnick. Quel pizzico di classe che si aggiunge ed illumina una prestazione solida e concisa. La quale termina con altri due concentrati di potenza ritmica ed immediatezza vocale, cioè “Practice what you preach” e la recente “The formation of damnation”.
Dopo un fulmineo cambio di strumentazione, è il momento di Mustaine ed i suoi Megadeth. Personaggio tanto noto quanto difficile e discusso, il chitarrista/cantante è stato comunque uno degli artefici dell’esplosione metal durante gli anni ’80. Sfoggiando l’ennesima line-up della loro storia, i Megadeth sembrano seguire l’attuale momento di rinnovato interesse verso il thrash metal “classico”. Infatti la scaletta proposta, copre in maniera molto più evidente il primo periodo della carriera anziché le produzioni recenti.
Spiccano in particolare gli intrecci chitarristici ed i duetti solistici, con il nuovo Chris Broderick, di “Take no prisoners”, “Skin o’my teeth” e soprattutto della tracimante “Hangar 18”, da quel “Rest in peace” che a mio avviso rimane l’apice creativo del gruppo statunitense. Ma la personalità della formazione emerge altrettanto nei momenti meno serrati, ad esempio nel romanticismo di “A tout le monde” o nel pathos drammatico di “In my darkest hour”, manifesto del tormento interiore che ha sempre accompagnato l’esistenza dell’ex Metallica.
Pressante anche l’accompagnamento del pubblico, specie durante la bruciante “Sweating bullets” e nello storico anthem “Peace sells”, che chiude l’esibizione. I Megadeth si ripresentano poi per un bis, anche se Mustaine sembra quasi scusarsi con i propri fans per il limitato spazio a disposizione. In effetti, a differenza dei Testament, dimentica di rendere omaggio al gruppo festeggiato. Mentre alcuni si domandano se l’amnesia è stata casuale o voluta, la band si scatena in una titanica versione di “Holy wars…the punishment due”, che termina in modo trionfale il suo concerto.
Volendo, ci sarebbe già materiale sufficiente per definirla una ghiotta serata. Invece manca ancora una fulgida stella.
Una lunga intro tenebrosa, annuncia la discesa in campo dei Judas Priest. Mentre il resto della band prende possesso del palco, Halford si materializza in cima ad un alta scalinata vestito di un saio scintillante. Atteggiandosi a sacerdote metallico, il vocalist intona quella “Metal Gods” che è un po’ la bandiera di questa grandissima formazione.
Da quel momento, il concerto si snoda attraverso trent’anni di carriera del gruppo britannico e di storia del metal. Difficile sottolineare i momenti più emozionanti, visto che c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Sicuramente il pubblico si esalta particolarmente davanti a certi classici dai ritornelli memorabili, da “Between the hammer and the anvil” a “Breaking the law”, da “Devils child” a “Hell patrol”, grazie anche alle acrobazie da giocoliere del batterista Scott Travis, situato in postazione elevatissima, ed ai fulminanti assoli della seminale coppia Tipton/ Downing.
A metà concerto, torna alla ribalta l’istrionismo di Halford. Il quale si presenta assiso su un trono, per interpretare la lunga e scenografica “Death”. Brano recente, parte del concept su Nostradamus, dall’atmosfera vagamente doomeggiante ma anche un poco stiracchiata. A seguire spazio dedicato alla sentimentale “Angel”, con la platea divisa tra la vecchia tradizione della fiammella modello accendino e la moderna freddezza tecnologica del display telefonico.
Poi si riparte con le ritmiche travolgenti di “Electric eye” e “Rock hard, ride free”, altra bandiera della filosofia Priest-iana. Se proprio si deve indicare un passaggio cult dell’esibizione, allora non può che essere la spettacolare versione di “Sinner”. Canzone che, non dimentichiamo, è datata 1977, ma ancora oggi rappresenta un vertice assoluto della musica metallica. Da segnalare qui un Tipton esaltato, esaltante ed incontenibile, tutt’ora in grado di insegnare molto sul ruolo di chitarrista in una heavy-band.
La chiusura spetta ad un altro mega-hit quale “Painkiller”, che s’incarica di far sgolare i circa diecimila presenti. Pochi attimi di attesa, per sentire l’inconfondibile rombo della Harley Davidson, con la quale Halford irrompe sul palco vestito di borchie da capo a piedi. Altri tre pezzi, tra i quali spicca l’ennesimo antico gioiello, la cover dei Fleetwood Mac “The green manalishi…” che faceva già bella mostra di sé nel primo mitico live ufficiale “Unleashed in the east”.
La splendida performance termina definitivamente con “You’ve got another thing coming”, durante la quale Halford coinvolge tutto il pubblico con il suo carisma da consumato frontman.
Il formidabile ritornello di questa canzone ci risuona ancora nelle orecchie mentre abbandoniamo il PalaSharp, testimoni di un evento che resterà certamente tra i più belli ed entusiasmanti dell’annata in corso. (Fabri… non so come si chiamerà il “Pala” tra altri vent’anni… ma noi ci saremo!! Sergio)

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