Lo ammetto: che sia concerto, volo, udienza o cena, la mia rigida
forma mentis non vede affatto di buon occhio il concetto di “ritardo”. Generalmente sono (sin troppo) smanioso di raggiungere in orario la
location prefissata, preferendo al massimo aspettare lì, crogiolandomi della mia puntualità e, soprattutto, esercitando tutto lo sdegno possibile per eventuali lentezze altrui.
Questa sera, invece, non mi sento colto da particolare frenesia nell’approssimarmi all’
Alchemica, anche a causa di una giornata che non ha fatto granché per alimentare entusiasmi e di un gruppo spalla che non suscita in me chissà quali aspettative.
Parlo degli…
SKALMÖLDGià: nonostante riferimenti stilistici quanto mai contigui ai miei gusti, da sempre reputo quella islandese una compagine di meri gregari del
viking folk, affossati da un
vocalist cinghialesco e schiacciati dal paragone con band coeve e dal sound simile, eppur notevolmente più ricche di talento.
Raggiungo quindi il locale a set iniziato, e le prime (impastate) note che si diffondo dalle casse paiono corroborare la mia poco lusinghiera opinione.
Tuttavia, man mano che la
setlist si dipana, imparo a nutrire una certa benevolenza nei confronti del sestetto.
Si badi: non stiamo parlando di sopraffini compositori (anzi), né di musicisti dotati di grande perizia esecutiva (anzi), né di carismatici intrattenitori sulle assi di un palco (anzi). Tutto ciò concesso, l’incedere arruffone ed anarchico che troppo spesso affossa le velleità dei loro brani su disco, in un contesto live finisce in qualche modo per nobilitarsi, anche grazie alle innegabili doti di grinta e determinazione che animano la cricca di
Snæbjörn Ragnarsson.
Il pubblico, generoso oltre ogni aspettativa, dimostra il proprio apprezzamento con pogo, cori e applausi a scena aperta, lasciando positivamente esterrefatti gli stessi
Skálmöld. I quali, sulle ali dell’entusiasmo, chiudono con una versione iper-adrenalinica di “
Kvaðning”, suggello di un'esibizione onesta, sudata, genuina, ed in ultima analisi coinvolgente.
Irragionevole pretendere di più: per me va bene così.
ALESTORMA 21.30 in punto tocca ai corsari scozzesi salire sul palco dell’
Alchemica, come sempre annunciati da
intro a dir poco improbabili.
Sin dalle note dell’iniziale “
Keelhauled” capiamo l’antifona: quello di stasera non sarà ricordato come un concerto in grado di deliziare il palato dei più esigenti audiofili. Per fortuna, i presenti non paiono rientrare nella categoria, tanto che, in barba a volumi e mix perfettibili, si scatenano cantando il contagioso ritornello a pieni polmoni.
Analogo, trionfale trattamento viene riservato alle successive “
Alestorm” (in cui
Christopher Bowes cede l’interpretazione vocale
hardcore della strofa al tastierista
Elliot Vernon) e “
Magnetic North” (una delle mie preferite).
Un autentico tripudio, poi, accoglie le scanzonate note del singolone “
Mexico”, a dimostrazione che la
fan base ha accolto a braccia aperte anche l’ultima fatica in studio “
No Grave but the Sea”.
È altrettanto vero che la tripletta centrale costituita da “
Nancy the Tavern Wench”, “
1741 (the Battle of Cartagena)” e “
Hangover” (in cui appare un corpulento australiano a me ignoto in veste di
vocal guest) fomenti gli astanti in particolar modo.
Giovane, preparatissima sulle
lyrics e armata di ammennicoli pirateschi vari ed eventuali, l’
audience degli
Alestorm si conferma una volta ancora tra le più entusiaste e festose dell’intera scena.
I Nostri incassano ben volentieri e ricambiano con una scaletta che può esser considerata a tutti gli effetti una sorta di
best of (nonostante l’assenza di “
Rum”), e con una prestazione di tutto rispetto -sebbene io, a distanza di anni, continui a sentire la mancanza dell’ammutinato chitarrista
Dani Evans-.
Lo stesso
Bowes, al netto di qualche piccola défaillance vocale e benché meno intrattenitore e cazzone del solito (anche se le ciabatte sfoggiate sembrerebbero indicare il contrario), si conferma
frontman magnetico e abile come pochi.
Quando ci si diverte accade sempre così: in un lampo ci si accorge con sgomento che è già il tempo dei
bis, inaugurati da due autentici inni del calibro di “
Drink” e “
Wolves of the Sea”, ancora una volta intonati (più o meno) da ogni singola persona presente.
Infine, ci si saluta con una distesa di diti medi alzati al cielo, inevitabile corollario alla conclusiva “
Fucked with an Anchor”. Giusto così: salutarsi in modo sdolcinato non sarebbe affatto piratesco.
Lasciamo dunque il locale felici ed appagati, come sempre al termine di un
set degli
Alestorm.
Anzi, a questo giro mi concedo addirittura una
T-shirt della
band (anche perché molto bella ed altrettanto economica). Con ogni probabilità, l’ultima volta in cui ho acquistato una maglietta ad un concerto ho provveduto a saldare in lire, e questo dovrebbe dirla lunga sul mio livello di soddisfazione al termine della serata.
Credo proprio che ci rivedremo presto, vecchi filibustieri…
Live report di
Marco CaforioFoto di
Giulia BianchiSKALMOLD setlist:
1 –
Árás2 –
Gleipnir3 –
Sverðið4 –
Múspell5 –
Niflheimur6 –
Narfi7 –
Móri8 –
Niðavellir9 -
Að vetri10 -
KvaðningALESTORM setlist:
1 –
Keelhauled2 –
Alestorm3 –
Magnetic North4 –
Mexico5 –
Over the Seas6 –
The Sunk’n Norwegian7 –
No Grave but the Sea8 –
Nancy the Tavern Wench9 –
1741 (the Battle of Cartagena)10 –
Hangover11 –
Pegleg Potion12 –
Bar ünd Imbiss13 –
Captain Morgan’s Revenge14 –
ShipwreckedENCORE
15 –
Drink16 –
Wolves of the Sea17 –
Fucked with an Anchor