Un viaggio tranquillo. In questo modo si è “consumato” l’avvicinamento di due membri della ormai “famosa” falange piemontese di Eutk al luogo deputato per la terza edizione del
Play It Loud, velocemente e meritatamente diventato uno degli appuntamenti fondamentali per tutti i sostenitori del metallo “classico” ed epico.
Un treno all’alba (nulla a che vedere con un interessante gruppo di alternative folk che ho recentemente scoperto – I Treni All’Alba, per l’appunto!) delle 7,45 (i miei sabati di norma iniziano decisamente più tardi!), le solite simpatiche chiacchierate e scambi di vedute su musica, rievocazioni concertistiche e lavoro (eh, sì perché con Ermo condivido anche l’ambito professionale!), una lunga attesa a Bologna per l’arrivo del “mitico” 97c (come da dettagliate istruzioni offerte dall’organizzazione!), una mezz’ora di tragitto sul suddetto autobus (dove abbiamo assistito ad un’animata discussione tra alcuni kids presumibilmente bresciani, avente come soggetto i John Frog e se avessero fatto bene a partecipare alle selezioni di X-Factor!), ed eccoci arrivati nell’area industriale di Argelato e al Kememeo, location che si rivelerà un’ottima scelta per il concerto in questione: buono nell’acustica, dotato di dimensioni, configurazione e architettura adeguate, il locale è in effetti un po’ “fuori mano”, ma consente di gestire agevolmente bill così corposi senza rischiare di “disturbare” il vicinato, magari non così entusiasta (come, invece, sarà il numeroso pubblico presente) di ascoltare heavy metal fino alle due e mezza del mattino.
Dal momento in cui sono saliti sul palco i Fallen Fucking Angels e fino all’ultimo secondo dell’esibizione dei Jag Panzer, la tranquillità del viaggio si è trasformata repentinamente in adrenalina, in carica emotiva, in quella “atavica” esaltazione sensoriale che solo l’hard n’ heavy rispettoso della tradizione è capace di evocare così violentemente e istintivamente nei sensi degli appassionati, mettendo d’accordo sia quelli che non concepiscono altre forme sonore, sia chi, anche avendo scoperto e apprezzato altre modalità espressive, si è “formato” proprio alla scuola di queste consolidate note e strutture musicali e ne fruisce sempre molto volentieri.
Uno spettacolo unanimemente emozionante, coinvolgente e divertente, al di là delle inevitabili preferenze individuali (oltre ai gruppi di cui parlerò nel dettaglio, tra quelli trattati con dovizia da Sergio, un mio plauso particolare va a Holy Martyr e Jag Panzer) e dei piccoli inconvenienti tecnici, alimentato da un carburante fenomenale, la passione, la stessa che condividono i gruppi sul palco, la gente che li ascolta e li “vive”, e chi questo festival lo ha voluto e organizzato in maniera impeccabile, con in testa quel Giuliano Mazzardi della My Graveyard Production, a cui vanno tutti i nostri apprezzamenti e i ringraziamenti più sentiti, accodandoci, in questo modo, a quanto hanno espresso pubblicamente durante le loro esibizioni TUTTE le bands presenti.
Una lunga bellissima giornata, dunque, “impegnativa” per il fisico (l’anagrafe si fa sentire!), ma straordinariamente appagante, e “pazienza” se questa roba non è di “moda”, qualcuno la definisce una manifestazione di anacronismo senza speranza e nei prossimi giorni, sintonizzandosi su MTV, “vero” e “fedele” specchio dei gusti musicali del globo terracqueo, non ne troveremo alcuna traccia.
Marco AimassoFallen Fuckin AngelSi inizia a "suonarlo forte" con i toscani Fallen Fucking Angels, che solo pochi mesi fa hanno realizzato il loro ultimo lavoro, "Everything Concernin' Pork", album dal quale recuperano diverse canzoni ("The Downhill", la stessa anthemica titletrack) assieme alle più datate "Asskickers" o "Bombman", ad ogni modo tutte quante lanciate lungo uno Speed Metal ottantiano grezzo e talvolta un po' sguaiato, sopratutto nelle liriche, che richiama non poco gli Exciter. Un paragone rafforzato dal doppio ruolo svolto dal batterista e cantante The Butcher, il quale non può che far pensare allo storico Dan Beehler, che per anni ha cantato e contemporaneamente suonato la batteria negli Exciter.
A sorpresa per la cover di giornata guardano ai Twisted Sister, dei quali riprendono (e maltrattano!) "Stay Hungry", brano che precede la conclusiva "Under Martial Law", altro estratto dal nuovo CD.
National SuicideIl Play It Loud continua con il Thrash Metal dei National Suicide, freschi autori dell'esordio sulla lunga distanza "The Old Family is Still Alive", una bordata devastante che mi ha fatto pensare subito agli Overkill, anche perchè la voce di Mini (al di là del nome, frontman carismatico e dotato di buona presenza scenica) assomiglia parecchio a quella di Bobby "Blitz" Ellsworth. Non stupisce quindi che i National Suicide inizino il loro assalto sonoro con una cover di un classico del Thrash, ma non tocca agli Overkill bensì agli "Exodus e la loro "A Lesson in Violence". E questa formazione trentina la lezione l'ha imparata per bene, e, al di là di qualche imprecisione (ma hanno contribuito alcuni problemi tecnici), snocciola una manciata di canzoni (si segnalano "National Suicide", "Let Me See Your Pogo" e "This is a Raid") che testimoniano il grande impatto live del gruppo e che vengono ben accolti dai presenti che stanno iniziano a riempire il locale.
WotanDopo i ritmi serrati dei primi due gruppi, prima parentesi epica con i Wotan. Nonostante la loro più che decennale attività, e in effetti stupisce ritrovarli nelle prime posizioni del bill, è la prima volta che ho l'occasione di vederli dal vivo e, sia per quanto mi avevano riferito sul loro valore live sia per quanto ascoltato sui loro due albums ("Carmina Barbarica" e "Epos") mi aspettavo da loro un concerto imponente. Invece i Wotan mi sono sembrati un po' sottotono, lo stesso Vanni, storico frontman della band, non appare in piena forma. Le canzoni sono comunque belle ("Ithaca" e "Lord of the Wind" su tutte) e non mancano trovate sceniche (l'abbigliamento barbarico, il calice a forma di teschio usato durante "Drink in the Skull of Your Father" o le spade sul palco al termine di "Iron Shadows") che ne arricchiscono il live set. Ad ogni modo il pubblico, ma anche il sottoscritto, rispondono più che positivamente alla prova dei Wotan... ma onestamente mi aspettavo di più.
Sergio RapettiLonewolf Personalmente non sapevo molto di questi Lonewolf, considerati un po’ da tutti come i “nipotini” francesi dei Running Wild.
Effettivamente, alla prova dei fatti, più che da Grenoble i nostri quattro “lupi solitari” sembrano arrivare da Amburgo, con un metallo d’evidente derivazione teutonica (oltre ai suddetti “pirati”, direi anche Accept e Grave Digger), ma anche sufficientemente personale e ispirato, oltre che dannatamente potente e trascinante, caratteristiche naturalmente enfatizzate dall’ambientazione live che i nostri risolvono con dovizia e buone qualità complessive.
Tra pose plastiche, forza d’urto e tipici incitamenti di genere, i quattro transalpini dimostrano di sapere il fatto loro sia dal punto di vista squisitamente tecnico, sia sotto il profilo espressivo e con una scaletta che pesca in maniera abbastanza equilibrata tra passato e presente, gratificano un pubblico piuttosto coinvolto e altresì, a differenza del sottoscritto, assai preparato sul loro repertorio.
“Shadowland”, le bellissime cadenze di “Divine art of lies”, “Buried alive”, l’anthem irrefrenabile “Made in hell”, “Seawolf”, “Pagan glory” (forse la più debole del set), l’arrembante “SPQR” e “Holy evil”, sono i vibranti mezzi scelti dai Lonewolf per conquistare anche gli appassionati più scettici (magari anche a causa della loro provenienza geografica, non esattamente la “culla” dell’HM), e una maggiore maturità compositiva rilevabile nei pezzi tratti dall’ultimo album “Made in hell”, non fa altro che rafforzare la sensazione di avere a che fare con una band dalle notevoli prospettive.
Marco AimassoHoly MartyrTocca quindi agli Holy Martyr, una delle formazioni oggi presenti al Ke Me Meo che più ha contribuito a spingermi nell'affrontare la trasferta bolognese. E' le aspettative sono state pienamente centrate, anche se la formazione, sopratutto il cantante Alex Mereu, ha dovuto superare qualche inconveniente tecnico, gli stessi che comunque avevano già tormentato i gruppi che li avevano preceduti sul palco.
Arrivano dalla Sardegna, e si sente (l'accento di un bravissimo, per voce e tenuta del palco, Alex Mereu è inconfondibile!), e suonano Epic Metal. E si sente!!
Guidati dal loro leader storico, il chitarrista Ivano Spiga, gli Holy Martyr danno la precedenza alle canzoni del loro ultimo album ("Hellenic Warrior Spirit"), piazzando in rapida successione "March / Spartan Phalanx", "Lakedaimon" e "Hellenic Valour", ed il valore dei pezzi, ma anche dello stesso gruppo, è subito testimoniato dalla reazione, entusiastica, dei metalheads accalcati sotto il palco. Si torna poi indietro all'album d'esordio ("Still At War") con l'epicità di "From the North Comes the War", tocca quindi alla più datata "The Call to Arms", prima di tornare all'epopea dell'Antica Roma con "Vis et Honor" e la conclusiva, (introdotta da Mereu come: "
troppo guerrigliera per Sanremo"), "Ave Atque Vale".
Dopo delle brillanti e convincenti prove su disco, gli Holy Martyr danno prova di essere una macchina da guerra in grado di fare la differenza anche sulle assi di un palco!
Sergio RapettiEtrusgraveIl 2008 è stato un anno da ricordare per la “famiglia” Dark Quarterer. Oltre all’uscita del magistrale “Symbols”, frutto diretto della “navicella madre”, i fans dell’epic metal più colto e suggestivo hanno potuto godere dell’altrettanto appagante “Matters of fate”, lo straordinario debutto degli Etrusgrave, progetto nato dalle illuminate sinapsi cerebrali di Fulberto Serena, che proprio grazie a quella magnifica formazione rivelò al mondo il suo talento.
E’ davvero una bella emozione vederlo calcare il palco del PIL, affiancato dall’altro “veterano” Luigi Paoletti e dai due “giovincelli” Francesco Taddei e Tiziano “Hammerhead” Sbaragli (che si presenta, in piena solidarietà “toscana”, con una t-shirt della Strana Officina), in una “singolare” commistione d’esperienza, spigliatezza e vivacità che si mescolano e si contaminano vicendevolmente in nome dell’arte musicale.
Perché è di questo che stiamo parlando, di una musica che evoca grandi emozioni, stimola l’immaginazione e scuote i sensi, su disco come dal vivo, dove brani formidabili come “The last solution”, “Defeaning pulsation”, “Wax mask” e “Dismal gait” non perdono una stilla della loro originaria forza espressiva e si giovano dell’ambientazione da “esperienza collettiva”, grazie anche ad un pubblico ricettivo e coinvolto.
Pura magia, poi, quando, introdotte dalla domanda “Vi piacciono i Dark Quarterer?”, sono le note di “Lady Scolopendra” (impreziosite dal flauto traverso suonato da Paoletti) a saturare l’aria del Kememeo e a ricordarci di quanto nocivo possa essere lasciarsi soggiogare completamente nei rapporti affettivi.
Con “Angel of darkness”, tratta dal demo “Behind the door”, si chiude la convincente prova di chi per il suo monicker ha optato per la fusione tra “Etruscan” e “Grave” … come dire l’unione tra misteriose culture millenarie e fosche visioni gotiche, combinate con l’immediatezza dell’heavy metal più intenso … in una parola Etrusgrave, semplicemente magnifici.
MartiriaSarò sincero. Se sono qui oggi è soprattutto per merito loro. Come spero già sappiate adoro letteralmente il modo di fare musica dei Martiria. L’alone colto e mistico, le nebbie tenebrose, l’enfasi catartica e l’eroica forza espressiva che questo gruppo è in grado di produrre, mi ha conquistato completamente e irrimediabilmente, così come seppero fare, a suo tempo, i fenomenali Warlord, affini ai nostri per approccio concettuale alla materia e per quel “fuoco” metafisico che ne alimenta l’ispirazione artistica.
Per queste ragioni non potevo assolutamente perdermi una loro esibizione a “ranghi completi”, caratterizzata, cioè, anche dalla speciale presenza “fisica” di Rick Anderson, fino ad oggi viceversa garantita sui dischi solamente dalle possibilità virtuali delle nuove tecnologie.
Uno show impegnativo e “pericoloso” dunque, anche per la partecipazione contemporanea di grandi gruppi nei confronti dei quali non si “poteva” sfigurare.
Niente paura. Il concerto è semplicemente grandioso, il combo sul palco è preciso e naturale, il suono migliora addirittura nella sua qualità (sarà solo una mia impressione da fan?) e le note fruiscono scavandoti nel profondo dell’anima e del cervello, con quell’inarrestabile forza di suggestione che solo i grandi possono annoverare tra le loro migliori prerogative.
Dispiace accorgersi che forse il pubblico è leggermente meno “preparato” sulla materia specifica del consueto, ma la magia non tarda a materializzarsi anche in questa situazione leggermente meno calorosa, grazie a frammenti d’arte pura che prendono il nome di “The cross”, “Misunderstandings”, “The most part of the men”, “Celtic lands”, “Prometeus”, “Give me a hero”, “The age of the return”, in una girandola di scariche endorfiniche, con Anderson che cancella tutti gli eventuali dubbi di coesione col resto della band attraverso il potere di un’esibizione eccellente, misurata e posata negli atteggiamenti sul palco e impeccabile dal punto di vista interpretativo.
Sentendo il boato che la platea riserva alla citazione dei Warlord durante l’auto-presentazione di Rick (che della formazione californiana è stato brevemente il cantante), viene da pensare che forse “strategicamente” non sarebbe stato male cercare una collocazione nella set-list per la cover della loro “Soliloquy”, magari cercandone un adattamento adeguato (la versione inclusa in “Time of truth”, terzo album della band romano-statunitense, era forse un po’ troppo “sinfonica” per questa circostanza), ma alla fine probabilmente è stato meglio così, perché i Martiria non hanno bisogno d’espedienti, nemmeno piccoli, per conquistare chiunque sappia ascoltare con il cuore e sappia capire di avere a che fare con un grande gruppo quando se lo trova davanti.
Grazie ai Martiria, dunque, per aver confermato dal vivo tutte le emozioni provate nei loro dischi e anche per aver rappresentato una straordinaria “molla” per vincere la mia proverbiale pigrizia, consentendomi di assistere ad uno spettacolo collettivamente formidabile.
VanexaCon l’esibizione dei Vanexa, tornati assieme a quindici anni da “Against the sun”, loro ultimo disco in studio, sale sul palco del Play It Loud un pezzo di storia del metal italiano e poco importa se oggi sono solo due i membri originari. I liguri possono essere considerati a pieno titolo come degli autentici prime mover di quella scena tricolore fatta di tanta passione e pochi mezzi, accesi antagonismi e invidie tra addetti ai lavori, tanto talento e creatività (talvolta sfruttata da altri, ricordiamo il “furto” del riff della loro “Lasciami stare” attuato dai Saxon per la costruzione di “Never surrender”!) e poca fortuna.
A quanto sembra questa reunion è stata fortemente voluta da Roberto Tiranti che esordì (a sedici anni, come ci ricorda egli stesso) proprio in quel succitato terzo album, per poi diventare una delle voci più competenti del rock di casa nostra, grazie, innanzi tutto, alle sue prestazioni con Labyrinth e New Trolls.
Ed è proprio da lui che inizierei per commentare questo concerto: la sua esibizione mi fa riflettere su quanto possa essere fondamentale la funzione del front-man e su come possa essere diversa, per quanto ugualmente entusiasmante, la recitazione di questo ruolo.
Volendo fare un paragone un po’ spericolato, visti gli ambiti stilistici piuttosto diversi, mi risulta, infatti, assai arduo stabilire se sia stata migliore un’interpretazione pacata e pregna di pathos alla Anderson o una performance incredibilmente istrionica e tecnicamente esplosiva come quella offerta da Tyrant.
Abbiamo semplicemente a che fare con due splendidi campioni della fonazione modulata, perfetti nei rispettivi ambiti stilistici, per la gioia di chi ama questa fenomenale musica nelle sue molteplici sfaccettature espressive.
Un grande plauso va comunque, ovviamente, anche al resto della band, con la storica sezione ritmica Pagnacco / Bottari a “spingere” e pulsare come di consueto e i due chitarristi (una novità!) Graziano e Selishta che si rivelano un’affiatata miscela d’impeto, grinta, sensibilità e duttilità.
Con “In the shadow of the cross”, “I wanna see fires”, l’incalzante “Midnight wolves”, “Hanged man”, “Against the sun” e la toccante ballad “Night rain of the ruins”, passando per “1000 nights” e “Metal city rockers”, che hanno il merito di scatenare il primo pogo “serio” della giornata, e arrivando al tripudio conclusivo di “Rainbow in the night”, con tutto il pubblico che canta e batte le mani rispondendo alle sollecitazioni di uno scatenato Tiranti, i Vanexa targati 2009 sembrano essere spinti dal medesimo entusiasmo e dalla stessa verve che li caratterizzava ai “tempi belli”. Non ci resta che fruirne liberamente e attendere con fiducia qualche buona notizia anche sul versante discografico.
Marco AimassoJaguar Tra le tante formazioni inglesi legate alla NWOBHM uscite nei primi anni '80 ("Power Games" risale al 1982) i Jaguar sono una di quelle con cui ho meno "legato". Probabilmente non si è mai instaurato il giusto feeling, ma questo non certo per colpa dei Jaguar, che nella loro prima calata italica si propongono in uno show energico: pochi fronzoli e via, con lo schizzato cantante Jamie Manton ("... jump, jump!!") a far saltare il pubblico al ritmo delle loro canzoni, sia che si tratti delle più antiche "Back Street Woman" e "Axe Crazy" (uscite solo come singolo prima dell'album d'esordio), sia quelle dei primi LPs ("Dutch Connection", "The Fox", "Master Game " o "Sucker") tanto quanto quelle più recenti, provenienti dagli album usciti dopo la reunion avvenuta nel 1988, come ad esempio l'opener "Run Ragged" o "Gulf War Syndrome"
Ormai della formazione originale rimane il solo chitarrista Garry Peppard, ad ogni modo nell'occasione li scopro compatti e decisamente più energici ed in palla di quanto mi sarei mai aspettato!
Sergio RapettiBud TribeDaniele “Bud” Ancillotti è una vera forza della natura. E lo è non solo quando canta e si esibisce su di un palco, ma anche quando si inc … ehm arrabbia di brutto, come accade all’inizio di questo concerto, allorché, per un problema tecnico, la sua voce non si sente. Insomma, vista la reazione e la stazza del personaggio, non vorrei proprio mai fare qualcosa che lo potesse contrariare.
A parte gli scherzi, la prova del Bud Tribe al Play It Loud è l’ennesima conferma di un team assolutamente vincente, accantonato temporaneamente per consentire la reunion della Strana Officina senza subire “distrazioni”, e oggi pronto a “spaccare” ancora una volta con un disco nuovo di zecca dal titolo “Roll the bone”, in cui viene recuperato l’uso dell’italiano in alcuni pezzi e vengono abbandonate un po’ le influenze hard rock dell’esordio, in favore di un approccio maggiormente “frontale” e metallico.
I legami tra il Bud Tribe e la Strana Officina si rafforzano ulteriormente, dunque, anche perché i brani in madrelingua che fanno parte del nuovo album e vengono eseguiti stasera si chiamano “Non sei normale” e “Starrider”, senza contare che nella scaletta sono incluse pure “Metal brigade” e “Metal show”, tutta “roba” che fa parte della gloriosa storia di uno dei gruppi capitali del metallo italico.
Inutile dire che sono proprio questi, con in testa quell’autentico inno alla “diversità” e alla libertà che è “Non sei normale”, a dimostrarsi i momenti più apprezzati dal pubblico, il quale comunque manifesta il suo gradimento anche per “Face the devil”, “Holy war” e per la più cadenzata “Rock ‘n’ roll tribe”, quest’ultima ripescata dal debutto “On the warpath”.
Il gruppo è affiatato, il drumming di Caroli devastante, il basso di “Bid” Ancillotti pulsante, la chitarra di Milani tagliente e ispirata, mentre della prorompente e incredibilmente carismatica voce di “Bud” si è già detto … in estrema sintesi una cinquantina di minuti di perfetta musica metal, vibrante, trascinante, appassionante, corroborante … chiedere di più potrebbe sembrare fin eccessivamente pretenzioso.
Marco AimassoExciter Un emblema dello Speed Metal: albums come "Heavy Metal Maniac" e "Violence & Force" sono imprescindibili punti di riferimento del genere. Anche questi canadesi hanno passato brutti momenti, qualche stallo creativo e non pochi problemi di formazione, ma gli Exciter sono sempre qui, ed il concerto di stasera spazza via tutti i dubbi sulla loro consistenza.
John Ricci è oramai sempre più l'anima del gruppo, e al fianco del chitarrista ritroviamo il batterista Rik Charron (in formazione ormai da più di un decennio) ed i due più recenti innesti, il bassista Rob Cohen ed il cantante Kenny Winter, che hanno preso parte all'ultimo studio album: "Thrash Speed Burn".
Attesissimi dai presenti, gli Exciter attaccano ferocemente le assi del palco con "War Cry" e la più datata "I Am the Beast". E' subito evidente come Kenny Winter sia fisicamente l'esatto opposto di Jaques Belanger, tarchiato e con una lunga chioma, ma la resa vocale è la stessa: eccezionale. La zona davanti al palco si fa ben presto calda, e canzoni come "Metal Crusaders", "Evil Omen" e "Pounding Metal" o le immancabili "Long Live The Loud" e "Heavy Metal Maniac", non contribuisco certo a raffreddare gli animi. E non poteva ovviamente mancare il mega-classico "Violence and Force", al quale spetta il compito di porre fine alle ostilità.
Un bagno di sangue che ha lasciato tutti soddisfatti!
Jag Panzer Le bordate degli Exciter hanno lasciato ben poche energie ai presenti e, complice l'ora tarda (ben oltre la mezzanotte), i Jag Panzer si trovano davanti un pubblico che nelle proprie fila lascia già intravedere qualche vuoto e sicuramente stanco… compreso il sottoscritto.
Ed è un vero peccato dato che non vedevo l'ora di vedere finalmente dal vivo questa storica formazione proveniente dal lontano Colorado, che finora per un motivo o per l'altro mi era sempre sfuggita.
Tiro fuori le poche energie rimaste e mi lascio trascinare dallo show di Harry Conklin e soci, che si confermano una spanna al di sopra della media per capacità compositive, esecutive ed attitudine sul palco, sempre potenti ed eleganti allo stesso tempo.
Superato senza grossi traumi l'abbandono di Chris Broderick (entrato nei Megadeth) con l'innesto di Christian Lesague (stasera però non sempre impeccabile) ad affiancarsi al veterano Mark Briody, i Jag Panzer si avvalgono di uno dei migliori singer in circolazione, Harry Conklin, in grado di fare davvero la differenza. Avvio sulle note di "Tyranny" e di "Future Shock"(entrambe da "The Fourth Judgement") intervallate da quelle di "Lustful and Free" (da "Age of Mastery "), e da qui in avanti un concentrato di ottime canzoni, tra le quali non mancano "Black", "Iron Eagle", "Chain of Command", "Shadow Thief" e la stupenda "Take to the Sky" (tratta da quello che io reputo il miglior album dei Jag Panzer: "Mechanized Warfare"), andando infine a ripescare dall'esordio discografico ("Ample Destruction") l'attesissima "Warfare.
Peccato che la stanchezza ed il pensiero di non perdere il Bus che deve ricondurci alla stazione ferroviaria abbiano impedito di gustarmi appieno lo spettacolo offerto da questa grandissima band.
Ma ora che abbiamo rotto il ghiaccio cercherò di rifarmi...
Sergio Rapetti