Se alla vigilia di questo concerto mi avessero detto che sarei andato via dall’Alcatraz più che soddisfatto, mi sarei messo semplicemente a ridere. Confesso infatti di essermi recato a Milano in questa freddissima sera di fine novembre con le peggiori aspettative: le recenti vicende di casa Stratovarius, unitamente all’orribile come back discografico dei finlandesi, non facevano certo sperare di poter assistere ad un buon concerto. Nemmeno la presenza degli Hammerfall (grandissimi dal vivo, anche se da tempo arrugginiti su disco) era bastata a provocarmi un po’ di eccitazione, per cui devo confessare di essermi recato ai cancelli del locale con lo sguardo di un condannato a morte.
L’Alcatraz è stracolmo in ogni ordine di posti, cosa alquanto sorprendente ma sicuramente piacevole, considerato che sono in molti a dare per morta la nostra musica preferita!
Ci pensano gli Shakra, band svizzera assolutamente sconosciuta dal sottoscritto, a scaldare l’atmosfera prima dell’arrivo delle main attractions. Gli elveici sembrano avere appreso a memoria la lezione dei Gotthard, di cui riproducono fedelmente l’hard rock sanguigno e immediato, con un songwriting decisamente sopra la media: stanno sul palco una quarantina di minuti e suscitano grande entusiasmo in un pubblico difficilmente avvezzo a un certo tipo di sonorità. Davvero buoni, rimedierò alla mia ignoranza procurandomi i loro lavori!
E viene finalmente l’ora degli Hammerfall: una scenografia artica con tanto di finti iceberg, dannatamente simile a quella dei Maiden di “Seventh son of a seventh son”, accoglie i presenti nel migliore dei modi, mentre potenti botti di fumo introducono la potente “Secrets”, opener dell’ultimo, scialbo, “Chapter V: unbent, unbowed, unbroken”. Seguono a ruota “Riders of the storm” e “Renegade”, e decisamente la band appare in perfetta forma: il suono non è perfetto, ma i nostri ci danno dentro di brutto e tra presenza scenica e potenza di esecuzione sembrano davvero aver raggiunto un livello di eccellenza. Sono soprattutto il bassista Magnus Rosen e il chitarrista Stefan Elmgren i due veri mattatori dello show, mentre Oscar Dronjack, da sempre molto più ombroso degli altri, macina un riff dopo l’altro senza sbagliare un colpo.
“Let the hammer fall” provoca un headbanging sfrenato, dopodiché è la volta della storica “Hammerfall” (purtroppo l’unico estratto dal seminale “Glory to the brave”), che fa cantare tutti i quanti e correre qualche brivido lungo la schiena.
Devastante “Fury of the wild”, uno dei brani più belli dell’ultimo disco, mentre assolutamente inatteso risulta il ripescaggio di “A legend reborn” anche se, visto il poco tempo a disposizione, avremmo preferito magari una “The dragon lies bleeding” o una “Steel meets steel”. Perfettamente inutile anche il drum solo di Anders Johansson, valido per carità, ma di troppo quando c’è così poco tempo per stare sul palco.
Si canta ancora tutti insieme con “Heeding the call”, un altro grande classico degli svedesi, che si congedano per la prima volta dal pubblico con l’anthem “Bloodbound”, banale certamente, ma assolutamente vincente in sede live! Le atmosfere solenni di “Templars of steel” fanno da preludio al momento dei bis, conclusi alla grande con “Hearts on fire”. L’impressione è quella di avere assistito ad un grande show: lo ripeto, gli Hammerfall sono oramai una vera macchina da palco, forse una delle migliori live band del panorama metal, tanto che gli si perdona facilmente il fatto che da tempo i loro lavori discografici abbiano perso di ispirazione. Unici nei di una performance altrimenti perfetta, la scaletta troppo simile a quella del Gods of metal di giugno e la prestazione sottotono di Joacim Cans, un ottimo frontman, ma un cantante che ha ancora bisogno di trovare la sua dimensione dal vivo.
A questo punto non rimane altro che attendere gli headliner: un telo nero con il giglio dorato al centro copre i lavori del cambio palco, dopodiché due schermi posti ai lati del palco mostrano le immagini della recente tournee brasiliana mentre dalle casse si diffonde un epico intro sinfonico.
Quando finalmente il telo si abbassa, i cinque finlandesi fanno il loro ingresso sulle note di “Hunting high and low”, che a sorpresa è andata a sostituire “Maniac dance” nel ruolo di opener. Basta appena questa canzone per capire che questo sarà un concerto speciale: la band è carica come una molla, il nuovo bassista Lauri salta da un capo all’altro del palco, e in generale tutti sembrano particolarmente ispirati e contenti di trovarsi lì (cosa che, per quello che il gruppo ha passato negli ultimi mesi, è già un bel miracolo!). In particolare Timo Tollki colpisce per la sua aria assolutamente rilassata e per i continui sorrisi che sfodera all’indirizzo del pubblico: che sia veramente tutto andato a posto in casa Stratovarius?
Due straordinarie versioni di “Speed of light” e “Kiss of Judas” fugano ogni incertezza sul fatto che questa sarà davvero una serata speciale.
Anche la setlist è totalmente inaspettata, e presenta una selezione straordinaria di grandi classici come “Destiny” (da brividi la parte finale), “Twilight symphony” e brani inattesi, da molto tempo non eseguiti dal vivo, come la fantastica “Legions” (che non era mai più stata suonata dal 1997!), che davvero fa rabbrividire come non mai, o la ballata “Coming home”, superbamente interpretata da Tollki alla chitarra classica.
Due soli (per fortuna, verrebbe da dire!) gli estratti dall’ultimo disco: “Maniac dance”, che dal vivo non è poi così orrenda, e “United”, un polpettone di noia disumana, oltretutto condito con messaggi di appello alla fratellanza e all’unità che sono apparsi quanto mai zuccherosi e sentimentali.
Nonostante questi incidenti di percorso, il concerto si mantiene su livelli di eccellenza assoluta, e anche se i suoni, ancora una volta, risultano non essere dei migliori, l’energia che la band sa sprigionare ci fa dimenticare tutto. Timo Kotipelto è sempre il solito, canta ogni parte con precisione disumana, ma in più è diventato anche intrattenitore e frontman di tutto rispetto, segno che il recente tour intrapreso da solista è servito a qualcosa. Una particolare menzione al bassista Lauri Porra, già perfettamente integrato nella line up, simpatico, genuino, e autore di un pregevole assolo verso la metà dello show. Jorg Michael è poi semplicemente spaventoso, un’autentica macchina da guerra, che oltre a non perdere un colpo manda in visibilio i presenti con alcuni numeri da circo (quali lanciare e prendere al volo in continuazione bacchette lanciate da una parte all’altra del palco senza mai smettere di suonare) che non fanno altro che confermarlo uno dei migliori batteristi oggi in circolazione.
Si giunge velocemente verso la fine, e tra il tripudio di un pubblico caldissimo, Kotipelto annuncia l’esecuzione di “Father time”, altro pezzo da novanta nella discografia dei finlandesi, che segna in questo caso anche la fine dello show.
Ovviamente nessuno ne ha ancora abbastanza, e allora ecco i cinque ritornare rapidamente per un’altra manciata di pezzi: Tollki imbraccia nuovamente la chitarra acustica, e partono le inconfondibili note di “Forever”, che come sempre viene lasciata in gran parte ai cori del pubblico, per quello che è da sempre uno dei momenti più intensi dei concerti degli Stratovarius. Poi un’altra piccola sorpresa, con la veloce “Eagleheart”, eseguita solo in queste date europee, prima che l’attenzione si catalizzi sul Jens Johansonn (ottima come sempre la sua prestazione), che manda tutti a casa con una superba “Black diamond” alla velocità della luce.
Che dire? Vedere la band finlandese così in forma e a suo agio su di un palco era una cosa che non mi accadeva da tanto, tantissimo tempo, e il concerto di questa sera mi ha ricordato tantissimo, per intensità ed emozioni provate, quello del 1996 ad Oleggio, quando “Episode” era da poco uscito nei negozi e i nostri, ancora semisconosciuti da noi, arrivarono in Italia in compagnia dei Rage.
In passato sono stati in molti a definire le performance del gruppo come impeccabili tecnicamente, ma fredde e distaccate dal punto di vista emotivo: bene, questa sera hanno dimostrato esattamente il contrario, per la gioia di chi li ha sempre supportati nel bene e nel male e per chi (sottoscritto incluso!) li aveva dati da tempo per morti. Bentornati Stratovarius, adesso aspettiamo anche un disco all’altezza della vostra fama.
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