(06 luglio 2024) Bruce Dickinson @ Metal Park, Villa Ca' Cornaro - GIORNO 1

Info

Provincia:VI
Costo:70,00 euro
Se il buon giorno si vede dal mattino, qui ci sono tutte le premesse per un gran bel weekend metallico.
Le prime impressioni, una volta giunto a Romano d’Ezzelino, sono immancabilmente positive: parcheggio comodo, location ampia e circondata di verde, svariate zone d’ombra, tanti bar, stand gastronomici e non, oltre a numerosi posti a sedere ben dislocati nelle zone periferiche. Insomma, questo nuovo festival si presenta come meglio non si potrebbe.
Rimane solo da augurarsi che le buone vibrazioni vengano ulteriormente corroborate dalle prestazioni delle band.
E a tal proposito…

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06 LUGLIO

MOONLIGHT HAZE
Compito non semplice quello di aprire le danze, a 12.30 e con poco tempo a disposizione. La compagine italica, dal canto suo, ci mette impegno ed entusiasmo, riuscendo peraltro a calamitare verso il palco un numero tutt’altro che trascurabile di spettatori.
Il power metal a vocazione sinfonica dei Nostri non sarà magari originalissimo, ma il tasso di epicità ed il gusto per la melodia non mancano di certo; sugli scudi anche le doti canore della brava Chiara, che chiude in crescendo col bel chorus di “We’ll Be Free”.
Anche in considerazione delle circostanze senz’altro promossi, tanto da me -che nulla conta- quanto dal pubblico -e questo conta eccome-.

TYGERS OF PAN TANG
Fa un po’ strano vedere un nome a suo modo storico, con quasi mezzo secolo di carriera alle spalle, esibirsi all’ora di pranzo; i Tygers of Pan Tang, comunque sia, paiono non curarsene affatto e, al netto di un mix che affossa un po’ l’incisività delle chitarre, conquistano da subito i presenti con una prestazione compatta e grintosa.
I brani più risalenti, benché magari non arcinoti, sono piccoli grandi classici della NWOBHM, e rifulgono ancora oggi di una luce speciale per gli amanti di quelle sonorità.
Fortuna, tra l’altro, che il profilo musicale risulti così convincente, perché se avessimo dovuto fondare le nostre opinioni sugli outfit di scena...
Si scherza ovviamente… anche se la camicia da Carica dei 101 di Robb Weir risulta ardua da metabolizzare.

Un plauso, invece, al frontman: molto a suo agio e sicuro vocalmente, oltre che bravo ad intrattenere il pubblico, mettendo in mostra una buona padronanza del nostro idioma… come dite? Potrebbe dipendere dal fatto che sia di Firenze? Potreste non avere tutti i torti.

È l’altro italiano in formazione, il chitarrista Francesco Marras, a marchiare a fuoco l’esecuzione dell’immancabile “Suzie Smiles”, prima che la riuscita cover di “Love Potion No. 9” chiuda il set tra i meritati applausi.
Se avessi novant’anni (ed un rivedibile senso del pudore) scriverei “le vecchie tigri ruggiscono ancora”; essendo, al contrario, ancora molto giovane, mi limito ad un più asettico “bravi davvero”.

RHAPSODY OF FIRE
Nota personale: pochi suoni al mondo riescono a smuovermi come la voce di Christopher Lee. Così, quando il compianto attore annuncia l’ingresso sul palco dei Rhapsody of Fire, mi sento già ben disposto nei loro confronti.

La compagine triestina, comunque sia, avrebbe potuto fare a meno di questa dose di captatio benevolentiae, essendosi resa protagonista di uno show molto convincente.
Il tempo è tiranno, ed i brani eseguiti alla fine saranno soltanto cinque; nonostante ciò, i Nostri profondono grande impegno, per di più aiutati da una resa sonora già ottimale.

Promosso il singer Giacomo Voli, forse ancora un pelo acerbo come frontman ma comunque abile, tra un acuto e l’altro (impressionante, in un paio di frangenti, per estensione e pulizia esecutiva), nel coinvolgere un pubblico già folto. Pubblico che, oltre a cantare a squarciagola i mastodontici chorus di “Dawn of Victory” ed “Emerald Sword”, si concede il primo wall of death del festival -spoiler: non sarà l’ultimo-.

Si sa che le cose belle durano poco, e così i Rhapsody of Fire si congedano, in perfetto orario sulla tabella di marcia. Senz’altro da rivedere con più tempo a disposizione.

RICHIE KOTZEN
Dopo l’infornata iniziale di classic e power metal, si apre ora una lunga parentesi maggiormente improntata all’hard rock. Quello di Richie Kotzen, con le sue inflessioni blueseggianti, sembra un pelo fuori contesto in un festival denominato “Metal Park”, e forse il primo ad accorgersene è proprio lui.

Un pochetto sulle sue, non necessariamente dotato di un linguaggio del corpo che trasmette passione, o di una parlantina brillante tra un pezzo e l’altro, l’artista statunitense sciorina una setlist senza dubbio piacevole, ma non sempre travolgente.
Si badi: la band sa suonare eccome, e lui è un mostro sacro della chitarra dotato, oltre a ciò, di una splendida timbrica vocale; eppure, nonostante tutto questo ben di dio, è mia impressione che all’esibizione manchi qualcosa in termini di coinvolgimento.

Il chorus di “Bad Situation” riesce infine a smuovere un po’ gli animi, e lo stesso fa il riff portante di “Love is Blind”; arduo, poi, rimanere impassibili di fronte ad alcuni assoli, davvero fenomenali.
Gli applausi, al termine del concerto, non mancano affatto, ed è giusto così: la classe, in fondo, non si discute. Al tempo stesso, non posso dirmi entusiasta al 100%.
Se però volessi registrare un nuovo album con Adrian Smith, e portare il progetto live da queste parti, avrai almeno uno spettatore sicuro…

MICHAEL MONROE
Toh, chi si rivede a distanza di nemmeno 24 ore…
Da frequentatore seriale e compulsivo di concerti dei Maiden, anche a brevissima distanza l’uno dall’altro, mi ritengo ormai avvezzo all’effetto déjà vu. Il problema, semmai, riguarda il live report: avendo da poco finito di scrivere quello relativo al Rock in Roma, cosa posso inventarmi ora?

Presumo che la tattica più avveduta sia quella di concentrarsi sulle eventuali differenze:
- se non erro, il fondale con la tigre a ieri non c’era;
- Monroe ed alcuni componenti della band hanno cambiato vestito;
- la setlist è stata modificata e rimpinguata (oggi, in effetti, il tempo a disposizione è maggiore).

Per il resto, le impressioni positive suscitate dal set di ieri vengono qui ulteriormente corroborate; forse, in un paio di frangenti, il Nostro è apparso meno brillante dal punto di vista canoro (durante l’incipit di “Ballad of the Lower East Side”, ad esempio, qualche inciampo lo si è colto), ma mestiere e carisma hanno ampiamente compensato.
Altro giro, altri applausi.

STRATOVARIUS
La faccenda inizia a farsi seria, soprattutto per chi, come il sottoscritto, era rimasto scottato (in tutti i sensi) dalla oltremodo fugace apparizione degli Strato la scorsa estate all’Ippodromo San Siro.
A questo giro, invece, gli astri paiono allineati nel modo giusto: la band finnica fa il suo ingresso sul palco in perfetto orario, e la title track dell’ultimo lavoro infiamma da subito la platea. Lo stesso può dirsi del chorus di “Eagleheart”, davvero urlato (scrivere “intonato” sarebbe forse improprio) da tutti gli astanti.

Dopo un inizio timido, i volumi della chitarra di Matias Kupiainen vengono aggiustati, e meno male: giusto in tempo per l’esecuzione delle successive “Speed of Light”, “Paradise” e “Legions”, tuffi nel passato decisamente apprezzati.
Ad onor del vero anche gli episodi più recenti, come “World on Fire” e “Frozen in Time”, vengono accolti con estremo calore; su quest’ultima, poi, gli impressionanti acuti di Timo riescono davvero ad infiammare la platea.

Tutta la compagine, comunque sia, suona che è un piacere: precisi, coesi, magari diversi nell’approccio (il già citato Matias ed il drummer Rolf Pilve più seri e concentrati; il bassista Lauri e Jens Johansson più rilassati e sorridenti), ma ugualmente efficaci.

Tra un’acclamazione e l’altra giungiamo di gran passo al classicone “Black Diamond”, sempre trascinante, ancora una volta con Kotipelto sugli scudi. Tocca poi ad “Unbreakable” ed alle contagiose melodie di “Hunting High and Low” concludere un'esibizione che non esiterei a definire entusiasmante. Ed osservando le espressioni felici e compiaciute dei miei vicini, penso di non esser l’unico ad aver maturato un giudizio così lusinghiero.
Come dice mia nonna: bravi e basta.

THE DARKNESS
Sarò onesto sino in fondo: nei miei programmi mentali, il set dei The Darkness sarebbe servito a riposare un po’ dopo gli Stratovarius ed in attesa di Bruce… ma quando mai?

Stolto io ad averli sottovalutati: in realtà, quello della band britannica si è rivelato uno dei più coinvolgenti e genuinamente divertenti dell’intero festival.
Merito di Justin Hawkins, tanto in forma vocalmente quanto istrionico e magnetico sul palco (oltre che in uno stato di forma fisica spaventoso); merito di una compagine magari non virtuosa in senso stretto, ma trascinante come poche e davvero compatta; merito di una setlist che mette in mostra una qualità compositiva media davvero alta.

Sarà pur vero che le influenze son lì da sentire (un po' di AC/DC, un po’ di Queen, un po’ di Thin Lizzy); saranno anche distinguibili i tributi (la linea di chitarra di “Motorheart” ricorda uno dei temi di “Indiana Jones e il Tempio Maledetto”, così come l’intera “Friday Night” sembra sottratta al songbook dei The Cure), ma la freschezza e l’efficacia delle melodie è tale che nessuno si formalizza.

Nemmeno la pioggia, che inizia a scendere con notevole insistenza, frena l’entusiasmo del pubblico, molto più ricettivo di quanto mi aspettassi nei confronti di una realtà comunque lontana dal genere di riferimento del festival.
Così, le irresistibili linee vocali di “One way ticket”, “Love Is Only a Feeling” e “Barbarian” (pezzo fantastico) vengono cantate da tutti -con più di un imbarazzo sulle numerose parti in falsetto-.

Per l’esecuzione di “I Believe In a Thing Called Love” sale sul palco addirittura Richie Kotzen, che non sembra aver studiato granché le partiture di chitarra ma che, ovviamente, la sfanga senza particolari patemi.
Un piccolo, agile tributo ai Queen con l'accenno di "We Will Rock You" (e considerato chi è il padre del batterista Rufus Taylor ci sta) conduce all’unica fase non troppo convincente dell’esibizione: quella finale.

I Nostri, infatti, si trovano forse con troppo tempo a disposizione, ed anziché proporre l’esecuzione di due diversi brani, si lanciano in una rielaborazione cincischiata e tirata troppo per le lunghe di “Love on the Rocks With No Ice”, intervallata da sproloqui assortiti di Justin, brevi lampi di cover dei Led Zeppelin, brevi digressioni strumentali, varie ed eventuali.

Al netto di ciò, l’esibizione dei The Darkness è un piccolo trionfo, tanto che mi riprometto di approfondire la loro conoscenza, sia a livello discografico che in occasione di eventuali nuovi concerti.

Per oggi sarei già più che soddisfatto così, e invece pensate un po': manca ancora l’evento clou…

BRUCE DICKINSON
Uno dei vantaggi di non avere separazioni, in termini di transennamento, tra il pit e le zone più arretrate, è che con una oculata gestione delle tempistiche puoi guadagnare posizioni piuttosto agevolmente.
Tradotto: attraverso una serie di impercettibili ma significative manovre avvolgenti riesco, nel giro di qualche ora, a raggiungere una insperata seconda fila poco prima che Bruce salga sul palco.

Anche in questo caso varrebbe il medesimo discorso fatto per Michael Monroe: cosa inventarsi per parlare di uno show al quale si è assistito appena un giorno fa -e anche il sabato prima se è per questo-? Tanto più che, un po’ a sorpresa, Bruce e soci decideranno di mantenere la stessa identica setlist proposta al Rock in Roma, e che a differenza di Michael, il buon Dickinson non ha nemmeno cambiato outfit

Mi limiterò a dire questo: senza alcun dubbio le mie valutazioni, per quanto obiettivo io tenti di essere, vengono inquinate da un amore più che sconfinato per l’artista di cui si discute. Al tempo stesso, non credo di sbagliare se affermo che stasera, in taluni frangenti, il cantante di Worksop sia riuscito addirittura a superarsi, toccando vette vocali altissime anche per i suoi standard.

L’interpretazione della doppietta “Chemical Wedding” / “Tears of the Dragon”, ad esempio, è stata così intensa e toccante da far scendere la classica lacrimuccia. E se io magari non faccio testo, vi posso assicurare che anche i miei vicini, al termine dei citati brani, avevano gli occhi lucidi.

Come accade per i Maiden, anche la band solista di Bruce possiede un canovaccio di mosse, situazioni, espedienti per coinvolgere il pubblico e dinamiche sul palco che ricorrono da una data all’altra. Se, dunque, l’elemento della spontaneità può latitare agli occhi di uno stalker seriale di Dickinson come me, la House Band of Hell sembra davvero divertirsi, suona molto affiatata ed è un vero piacere da veder suonare.

Al tempo stesso, non negherò che per l’80% del tempo i miei occhi siano fissi su Bruce, che purtroppo non riuscirò più ad ammirare in questo 2024, nemmeno in seno al gruppo principale…
Mi consolo con una “The Alchemist” da brividi -ma quanto è bella la linea vocale del chorus?- e con dei bis eseguiti magistralmente, se possibile ancor meglio del giorno precedente.

Altro motivo di sollievo è la promessa di tornare presto, e mi auguro che ciò accada sia con la Vergine di Ferro che in veste solista.
Ah, e non dimentichiamoci di un ulteriore dettaglio non da poco: domani toccherà agli Emperor

TYGERS OF PAN TANG setlist:
Euthanasia
Keeping Me Alive
Love Don't Stay
Back for Good
Suzie Smiled
Hellbound
Love Potion No. 9 (The Clovers cover)


RHAPSODY OF FIRE setlist:
Unholy Warcry
I'll Be Your Hero
Challenge the Wind
Dawn of Victory
Emerald Sword


RICHIE KOTZEN setlist:
Losing my mind
War Paint
Fooled Again
Bad Situation
Love is Blind
Help Me


MICHAEL MONROE setlist:
Dead, Jail or Rock 'n' Roll
I Live Too Fast to Die Young
Murder the Summer of Love
One Man Gang
Young Drunks & Old Alcoholics
Horns and Halos
‘78
Ballad of the Lower East Side
Nothing’s Alright
Hammersmith Palais
Up Around the Bend


STRATOVARIUS setlist:
Survive
Eagleheart
Speed of Light
Paradise
World on Fire
Legions
Frozen in Time
Black Diamond
Unbreakable
Hunting High and Low


THE DARKNESS setlist:
Growing on Me
Get Your Hands Off My Woman
Givin' Up
Motorheart
Solid Gold
One way ticket
Love Is Only a Feeling
Barbarian
Friday Night
Japanese Prisoner of Love
I Believe In a Thing Called Love (with Richie Kotzen)
Immigrant Song (Led Zeppelin cover)
Love on the Rocks With No Ice
Heartbreaker (Led Zeppelin cover)


BRUCE DICKINSON setlist:
Accident of Birth
Abduction
Laughing in the Hiding Bush
Afterglow of Ragnarok
Chemical Wedding
Tears of the Dragon
Resurrection Men
Rain on the Graves
Frankenstein (The Edgar Winter Group cover)
The Alchemist
Darkside of Aquarius
Encore:
Navigate the Seas of the Sun
Book of Thel
The Tower
Report a cura di Marco Cafo Caforio

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