Non credo sia necessario spendere parole di circostanza sugli Opeth: nel corso degli anni la loro musica si è fatta sempre più complessa e personale, pur rimanendo fedele al proprio trademark specifico, e i numerosi riscontri ottenuti in campo internazionale non hanno assolutamente nulla di esagerato, considerata la qualità esponenziale dei loro dischi.
Oggi la band di Mike Akerfieldt si presenta per la terza volta in Italia nel giro di un anno, ma questa volta siamo davvero ai congedi finali: il lungo tour a supporto di “Ghost reveries” sta terminando, e, come loro stessi annunciano dal palco, è arrivato anche il tempo di mettersi a comporre del materiale nuovo.
Arrivo a Trezzo in tarda serata, quando gli Amplifier sono all’ultimo pezzo e il locale è già stracolmo di gente che non vede l’ora di vedere i propri beniamini in azione.
A vederli, a questi cinque svedesi non daresti una lira: look normale e trasandato, facce pulite, nessun orpello scenico come supporto visivo. Quando attaccano “Ghost of perdition” si capisce perché: se si può contare su canzoni di quel calibro perché sprecare tempo in altro? Andrà così per tutta la sera, con gli Opeth a suonare le loro composizioni emozionanti e cerebrali, tutte di lunghezza media alquanto considerevole (e infatti, in due ore di spettacolo, ne sono state proposte soltanto nove) e il pubblico, quieto ma assolutamente partecipe, ad adorarli da sotto il palco.
Tra un brano e l’altro, a spezzare l’idillio, le simpatiche battute di Mike, personaggio decisamente fuori dal comune, dotato di una fine ironia e di una grande capacità di mettersi a nudo: un uomo, prima ancora che un musicista heavy metal.
E’ un concerto emozionante quello di stasera, anche se certo, gli svedesi non danno nulla senza volere qualcosa in cambio: la complessità della proposta è notevole, e i brani risultano ostici anche per l’ascoltatore più navigato (il sottoscritto li conosce bene ma non si considera tra questi). Accettare di starci fino in fondo però, può regalare davvero molto: le visioni da loro evocate sono indimenticabili, la naturalezza con cui si muovono tra sfuriate death e momenti più melodici e riflessivi, conservando allo stesso tempo l’organicità dell’insieme è davvero sbalorditiva.
Anche la scaletta è straordinaria, ma del resto avrebbero anche potuto scegliere a caso, tanto chi si lamenta quando ogni brano che hai scritto è un piccolo capolavoro? Poco concentrati sull’ultimo lavoro (dopo un anno, quali obblighi promozionali ci possono essere ancora?), preferiscono spaziare in lungo e in largo nella loro vasta discografia: “Face of Melinda”, “Bleak”, “Blackwater Park”, e persino due incursioni nel passato remoto (“When” da “My arms, your hearse” e addirittura “The night and the silent water”, da “Morningrise”). A conti fatti, solo il disco d’esordio “Orchid” viene lasciato fuori, dato che c’è spazio pure per l’esperimento acustico di “Damnation”, omaggiato con una toccante versione di “Windowpane” (con Mike che invita i presenti ad amare questo tipo di composizioni, perché anch’esse fanno parte dell’heavy metal).
Chiude tutto una cupa e sofferta “Deliverance”, a tratti quasi claustrofobica, che ci congeda definitivamente da loro.
Dire di aver assistito ad un’ottima esibizione di un’ottima band heavy metal sarebbe davvero un insulto per loro: abbiamo visto un concerto degli Opeth, punto e basta. Detto questo, al metal appartengono eccome, e credo che se uno svecchiamento di questa musica potrà mai avere luogo, non si potrà non prendere in considerazione questi svedesi tra i punti di partenza principali…
Setlist:
- Ghost of perdition
- When
- Bleak
- Face of Melinda
- The night and the silent water
- The grand conjuration
- Windowpane
- Black water park
- Deliverance
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