Dopo l’entusiasmante performance dei Paradise Lost in quel del Day At The Border di quest’estate, ero veramente curioso di rivedere il combo di Nick Holmes e Mackintosh ancora in sede live, per sapere se in quel giorno sono state definitivamente messe a tacere le voci che volevano la band inglese come, ehm, piatta e scialba sul palco. L’occasione è arrivata, ed insieme ai Goth Gods vi sono anche i Deathstars, nuova sensation firmata Nuclear Blast, ed i milanesi Exilia chiamati ad aprire le danze.
Gli Exilia iniziano con puntualità quasi svizzera, anche se alle intorno alle 21.00 il Vidia si presenta praticamente vuoto. Il live set copre lo spazio di circa una mezz’oretta (tempo nel quale il locale vede un aumento dell’affluenza della gente, che comunque rimarrà scarsa per tutta la serata), lasciando a fine sessione una positiva impressione del l’italianissimo combo. Grinta, sudore e rabbia le tre semplici parole per descrivere la base su cui si fonda il sound dell’act lombardo, ovvero una sorta di interessante miscela tra Guano Apes e Korn, con una voce femminile carica di energia e di impatto… già, impatto che non viene meno anche visivamente (i nostri aggrediscono bene lo stage). Peccato per i suoni, che da penosi ad inizio concerto diventano appena decenti solo verso la fine. Augurando a questi ragazzi di trovare quanto prima la distribuzione in Italia (strano che da noi si arrivi sempre tardi…in Germania il loro ultimo lavoro è distribuito BMG), direi che gli Exilia hanno ben figurato e meritato l’onore dell’apertura.
Giusto il tempo di cazzeggiare in qua ed in là, che i Deathstars arrivano sul palco in completo make up ed in degne vesti Future Glitter Goth (come d’altronde la loro immagine figlia dei The Kovenant vuole). L’album ‘Synthetic Generation’ (da poco uscito) è praticamente riproposto nella propria interezza (solo l’ordine delle songs viene invertito) lasciando luci ed ombre sulla tenuta live dei ragazzi svedesi. Avendo parlato nel pomeriggio con il singer Whiplasher ed il drummer Bone W Machine capisco come i postumi della sbronza del giorno prima possano aver contribuito alla non esaltantissima performance del five piece, ma comunque il loro live set non mi ha convinto più di tanto (forse anche perché la mia aspettativa era molto alta, visto che sto praticamente divorando il platter). La cosa che è mancata di più questa sera è stata la grinta giusta e la giusta lunghezza d’onda emozionale: la prima, come detto, forse derivante da una non perfetta forma psico-fisica (anche se comunque i ragazzi si sono impegnati e si sono sbattuti sul palco), la seconda sicuramente dovuta al fatto che il dischetto sarebbe stato nei negozi solo la settimana seguente al concerto (non ci scommetterei, ma forse ero l’unico in tutto il Vidia a conoscere a menadito tutte le canzoni) con la conseguenza che anche la gente è rimasta un pochino freddina e distaccata dall’atmosfera e dal tiro che songs come ‘Synthetic Generation’, ‘Modern Death’ o ‘New Dead Nation’ intrinsecamente contengono. Peccato per l’occasione non sfruttata in pieno… dai Deathstars mi aspetto ed esigo molto di più. Forse al prossimo concerto ne sarò soddisfatto in pieno, ma per il momento sono incompleto.
Ultimo cambio di palco; il momento si avvicina. Le luci si affievoliscono ed ecco entrare la band inglese. Holmes, con il suo aplomb tutto britannico dà il benvenuto alla folla accorsa per loro con un semplice e lineare “welcome grey men” per poi iniziare con la bellissima ‘Erased’ ed infiammare l’atmosfera. Lo show procede molto bene fino alla fine, lasciando (purtroppo come al solito) praticamente nessuno spazio per le storiche composizioni di ‘Gothic’, di ‘Shades Of God’ (eccetto ‘As I Die’), di ‘Icon’ (solo ‘Widow’) e di ‘Draconian Times’ (ad eccezione di ‘Shadowkings’) ma finché questi signori continueranno a suonare in questo modo, con questa grinta e questa voglia, forse si possono anche perdonare. Holmes, Mackintosh, Aedy, Edmonson e Morris forniscono una prestazione sopra le righe, trasmettendo un’ottima vibrazione e ricevendo, in ricompensa, un caloroso feedback ricco, ad ogni song, di energia sottoforma di applausi e di larghi consensi. La sensazione generale è che i Paradise Lost sono definitivamente tornati a volare alto, nelle vette che a loro spettano di diritto, ritrovando quella (grigia) serenità che fino ad ora era assopita e quella voglia che oramai sembrava latitare fino a poco tempo fa.
I must degli ultimi anni si susseguono l’uno dietro l’altro (però una ‘Embers Fire’ ci poteva stare…), rimarcando più o meno fedelmente la scaletta fatta a Milano, con punte massime toccate su ‘As I Die’ e ‘Say Just Words’ che scatenano il movimento da più parti (i ragazzi dei Deathstars sono arrivati in pista a ballare trascinati dal ritmo calibrato delle songs), soprattutto tra le prime file.
Il bis è tutto per tre sole songs, ma basta sentire le note di ‘Isolate’ - song nella quale Holmes trova diverse difficoltà dovute alle spie auricolari - per far impazzire letteralmente l’audience (non ancora sazia ma decisamente oramai appagata per la grande prestazione del paradiso perduto), per poi arrivare all’oramai immancabile cover del pezzo Principe dell’Electro Pop ‘80 ‘Smalltown Boy’ (originale dei Bronsky Beat) ed alla sentitissima ‘One Second’, per un finale tutto sentimento ed emozione.
La conclusione? Semplice: i Paradise Lost hanno avuto ragione sui loro detrattori. E questo è un bene.
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