L’ho già detto in sede di recensione: gli Arpia sono per quanto mi riguarda una delle realtà più ricche di talento e di carisma dell’intero panorama musicale italiano e il loro recente “Terramare” rappresenta l’ulteriore tassello di un percorso artistico costantemente ricco d’intensità, acume e “cultura”, ma che non dimentica al tempo stesso anche quegli aspetti di coinvolgimento “epidermico” insiti nel rock.
Per chi “colpevolmente” non li conoscesse ancora o volesse approfondire la loro personalità, ecco l’occasione di questa intervista con un disponibilissimo Leonardo Bonetti, chitarra, basso, tastiere e “mente” primaria del favoloso act capitolino, il quale “esplora” in modo assai minuzioso l’essenza della sua spettacolare creatura artistica, offrendo un significativo contributo “ideologico/didascalico” ad una musica capace di appagare straordinariamente ogni organo sensorio (compreso il cervello, spesso un po’ trascurato!) dell’ascoltatore che voglia sottoporsi alla sua unicità.
Gli Arpia sono un gruppo in “giro” dal 1984, ma, forse, vista la loro produzione non esattamente “easy listening” e un certo “distacco” dal music business (tanto che ogni nuova uscita è accolta dai Vs. sostenitori, tra cui il sottoscritto, come un’autentica sorpresa!), non sarebbe male iniziare con una breve scheda di “presentazione” …
Già. Siamo nati nel febbraio del 1984 in occasione di una festa di carnevale e abbiamo subito iniziato un percorso musicale incentrato innanzi tutto sulla ricerca di un’espressione il più possibile aderente alla nostra ispirazione comune. All’inizio abbiamo passato mesi a discutere e a suonare con la consapevolezza che quello che avremmo fatto non sarebbe stato mai pubblicato. Infatti era ossessiva, in quel momento, la preoccupazione di esprimere un mondo filosofico ed emozionale che ritenevamo improponibile all’esterno. A questa preoccupazione siamo sempre rimasti fedeli nella sostanza e forse è questo uno dei motivi per cui abbiamo atteso così tanto prima di far uscire il nostro secondo Cd.
Tuttavia questa prima fase prettamente filosofica, con un po’ di nichilismo, esistenzialismo, molta letteratura decadente impiantati su una musica dalle tonalità oscure e dai ritmi fortemente cadenzati si è risolta con l’uscita del nostro primo demo tape dal titolo “de lusioni” del 1987, uscito sulla spinta e l’incoraggiamento che ci venivano da amici e coloro i quali avevano apprezzato la nostra musica. L’anno dopo l’evoluzione è proseguita con il nostro secondo demo dal titolo “Resurrezione e Metamorfosi”, una suite di più di 40 minuti, in cui l’elemento lirico è più forte e la ricerca musicale più articolata. Il testo ermetico ed onirico infatti si sviluppa in un divenire continuo, in stretta relazione con le strutture musicali. Dal vivo nel frattempo iniziano sperimentazioni teatrali, per cui tentiamo a più riprese di superare il modello classico del concerto, per approdare a spettacoli che prevedono l’intervento di attori, scenografie, mimi.
Il lirismo assoluto di Resurrezione non poteva a questo punto avere altre tappe evolutive, quindi la fase successiva, di transizione verso suoni più diretti e testi più aderenti al reale, si sviluppa in un lavoro molto più breve dal titolo “Bianco Zero” (1990).
Subito dopo esce il primo disco, un EP 33 giri in vinile con soli due brani, “Idolo e Crine” e “Ragazzo Rosso” per la BTT RECORDS. Quest’ultimo brano sarà pubblicato nel 1995 anche nel primo CD per l’etichetta PICK UP RECORDS dal titolo “Liberazione”. Questa fase è contrassegnata dall’introduzione dei synth e dal conseguente cambiamento dei rapporti tra utilizzo dei riff e strutture armoniche. Liberazione è un concept imperniato sulla ricostruzione di un periodo storico ben preciso: gli anni che vanno dalla lotta partigiana alla fine della Prima Repubblica. Il tutto non è visto nell’ottica della storia ufficiale, ma attraverso le vicende delle persone comuni che sono state spettatrici o che per un caso fortuito sono sfuggite ad uno di questi appuntamenti con la Storia.
Negli ultimi anni l’evoluzione verso soluzioni ritmiche e sonorità più istintive e meno rarefatte porta ad un allargamento del gruppo con collaborazioni che vedono l’intervento di Paola Feraiorni alla voce e di Tonino De Sisinno alle percussioni. Nel contempo il lavoro del gruppo si incentra su un allargamento delle basi armoniche delle composizioni, con un utilizzo più libero degli intrecci tra chitarre, synth e voci. Il risultato di tutto questo si concretizza con l’uscita recentissima di “Terramare” per LIZARD RECORDS e ANDROMEDA RELIX.
La Vs. musica è realmente inetichettabile e tale da mettere in difficoltà anche i più autorevoli giornalisti musicali. Da dove nasce quest’originalità e qual è, tra le molte definizioni utilizzate per spiegare il Vs. suono, quella che credete gli renda maggiore “giustizia?
In effetti una delle costanti di tutti i giudizi che abbiamo avuto fin dagli esordi è stata l’originalità della nostra musica. Può piacere oppure no, ma questo aspetto è sempre comparso come evidente sin dal primo approccio. Credo che tutto si spieghi considerando come è nato il progetto ARPIA. Sin dall’inizio abbiamo dedicato mesi al confronto, alla elaborazione, discutendo e suonando, cercando di portare alla luce quelle che erano le nostre riflessioni sul mondo, innanzi tutto, prima che sulla musica. Questo elemento “filosofico” è stato fondamentale, perché ha sgombrato il campo da tutte le facili formule, gli schemi precostituiti di cui purtroppo si servono molto spesso i gruppi per iniziare un’esperienza creativa. Di frequente i ragazzi che iniziano a suonare insieme si dicono: facciamo nu-metal, oppure neo progressive, oppure crossover… Bene, questo metodo di certo condiziona pesantemente la libertà creativa. Noi semplicemente abbiamo deciso di suonare quello che avevamo dentro. Ciò non significa che non ci siano influenze nella nostra musica, ma solo che sono rintracciabili nella formazione del gusto musicale di ognuno di noi, e che sono sempre al servizio dell’espressività, mai fini a se stesse. Ogni volta che dobbiamo affrontare un nuovo progetto cerchiamo di ascoltare ciò che, spontaneamente, esce dalle nostre corde; solo successivamente cerchiamo di “capire” su quali coordinate si debba viaggiare, quali elementi interni debbano essere privilegiati per dare un senso e costruire un “discorso” che renda giustizia all’ispirazione del momento. Di solito, dopo un disco, dopo il termine di un lavoro è come se prendessimo coscienza che una fase della nostra vita, non solo della nostra esperienza artistica, è conclusa e in parte acquisita. La guardiamo con un leggero distacco, possiamo, finalmente, parlarne. In tutto questo percorso non ci mettiamo in ascolto delle “tendenze” musicali del momento, e viaggiamo dentro le logiche interne del progetto che andiamo elaborando. Le influenze esterne sono legate a ciò che ognuno di noi ascolta, alla musica di cui siamo imbevuti.
Ancora prima di affrontare il nuovo splendido “Terramare”, mi piacerebbe spendessi due parole supplementari sul precedente “Liberazione” (un altro magnifico esempio della Vs. arte), soprattutto in merito al suo tema dominante: “il recupero nella memoria storica del nostro paese a distanza di cinquant’anni dalla liberazione dal nazifascismo …”. Da cosa nacque quest’esigenza? Non credi che tale mancanza di “coscienza storica” sia un argomento, purtroppo, ancora fortemente attuale?
L’esigenza di affrontare il tema della memoria storica del nostro paese nasceva da motivazioni esterne ed interne. Innanzi tutto c’era una ricorrenza: il cinquantenario del 25 Aprile 1945: “Liberazione” esce, infatti, proprio il 25 aprile 1995, con una volontà irriducibile di segnare questa data come uno spartiacque. Gli eventi erano sotto gli occhi di tutti: dopo cinquant’anni dalla caduta del nazifascismo tornavano al potere gruppi vicini alla tradizione neofascista italiana. La nostra non era, come potrebbe sembrare, una preoccupazione legata ai possibili pericoli di tenuta democratica del paese, ma semmai la sconsolata presa d’atto che in questi primi cinquanta anni di repubblica la coscienza collettiva non aveva fatto i conti fino in fondo con il passato. Era questa la lettura di fondo che ci ha spinti ad affrontare tale tematica.
Ma d’altronde altre motivazioni estetiche e di poetica, del tutto interne al nostro progetto, ci spingevano in questa direzione. Infatti dopo “Bianco Zero” e “Idolo e Crine” il percorso in direzione di una discesa verso il reale che presupponeva un riconoscimento del mondo e una sua assunzione critica, non poteva risolversi semplicemente in chiave individuale ma doveva farsi carico della storia collettiva. Di fronte a questo problema, fondamentalmente “estetico”, la nostra scelta è stata quella di una ricerca degli interstizi in cui la Storia ufficiale si incrociasse con i destini singoli degli individui, impotenti, ignari dei condizionamenti e delle brusche svolte che gli avvenimenti storici avrebbero impresso alle proprie esistenze.
Arriviamo, dunque, a “Terramare”. Come mai è dovuto passare così tanto tempo tra “Liberazione” e questo nuovo lavoro?
Essenzialmente perché dopo “Liberazione”, in modo del tutto inconsapevole, abbiamo vissuto una crisi molto forte, legata all’incapacità di continuare un “discorso poetico” conseguente. Di fronte ad un cambiamento epocale che abbiamo vissuto in questi ultimi dieci anni e che ha visto una modificazione sostanziale delle abitudini e dei condizionamenti culturali, siamo entrati in un tunnel muto, da cui abbiamo tentato di uscire riducendo le suggestioni formali della nostra precedente ispirazione e iniziando ad utilizzare di più i materiali di scarto della produzione musicale contemporanea, insomma i detriti della musica commerciale, del rock più standardizzato in una direzione - dolorosa - di spersonalizzazione. C’era un'impossibilità di canto. Il flusso scintillante del post moderno ci aveva reso afoni. In questi ultimi dieci anni hanno preso corpo le cover band e i tributi, il post moderno ha spazzato via la modernità in un paio di lustri. Completamente. Non potevamo più fare quello che facevamo perché sotto i nostri piedi c'era un nuovo mondo che nel frattempo ci aveva nutriti e avvelenati. Questo veleno lo portiamo in corpo. Abbiamo fatto dei brani che erano cover di gruppi mai esistiti o semplicemente possibili. Cover di brani mai scritti.
E’ stato durissimo uscirne, e l’aiuto è venuto dalle “voci” che venivano da dentro il nostro passato, quello individuale ma, soprattutto, quello collettivo. La tradizione poetica e storica della nostra cultura, fatta propria e assorbita. In questo ha preso forma la nostra salvezza. Se non avevamo più voce potevamo rivolgerci ai nostri “grandi”, chiedere il loro soccorso e la voce sarebbe tornata. Questo è successo in questi anni, questa è la radice da cui ha preso corpo “Terramare”.
“Terramare” affronta la questione dell’esperienza erotica del mondo, dove Terra e Mare rappresentano le figure simboliche di uomo e donna in quell’atavico gioco amoroso fatto di contrasti e così ricco di fascino e mistero. Come mai avete scelto questo “concept” e quali sono i motivi che vi hanno spinto ad utilizzare porzioni di testi “classici” per la sua riproduzione? Non temete che, benché dal mio punto di vista incredibilmente affascinanti, le parole di Guido Cavalcanti, Torquato Tasso, Cielo d’Alcamo, Rinaldo d’Acquino e Ciacco dell'Anguillaia, possano “spaventare” un po’ gli ascoltatori, magari anche solo a causa di “sgradevoli” ricordi scolastici?
Terramare è un disco sull’Eros e sui rapporti tra sensualità e vita. Questo approccio corre su un filo che parte da lontano: più precisamente dalla poesia medioevale italiana delle origini nella forma popolare dei contrasti. Su questa linea infatti si svolge un percorso che attraversa tutto il nostro lavoro, con composizioni che riprendono poesie italiane più o meno famose del Duecento e altre che le rimaneggiano e le integrano con testi di nostra composizione. Ma il fondo più importante è da rintracciare nella violenza devastante delle dinamiche erotiche che, sempre, sono rivoluzionarie e per nulla tollerate dalle varie forme di potere di cui è costellata la nostra esistenza. Voglio dire semplicemente che la carica erotica è destabilizzante e scandalosa perché non la si può razionalizzare. Il benpensante che vive dentro ognuno di noi comincia ad avere un eccesso di sudorazione ogni qual volta deve cercare di comprimere l’energia erotica che si sprigiona dentro di lui e che rischia di comprometterne l’onorabilità. I piani, le rassicurazioni, i bei propositi saltano con violenza di fronte alla irrazionalità dionisiaca dell’innamoramento. Non c’è proprio nulla da fare. Il carnevale dell’Eros è esattamente il contrario del mito dell’armonia borghese.
Per quello che riguarda l’uso dei classici lo trovo, anch’esso, assolutamente scandaloso proprio perché apparentemente divergente dal linguaggio del rock più canonico. In questo senso può spaventare o sembrare pretenzioso ma il rischio bisognava correrlo. La scuola poi è l’emanazione prima di ogni potere, quindi la nostra operazione andava nella direzione di uno scardinamento dello schema per cui Tasso, ad esempio, fosse appartenenza esclusiva di una classe di intellettuali che lo rinchiudevano nel loro orto di preziosismi. La carica perturbante di Cielo d’Alcamo o di Ciacco dell’Anguillaia andava recuperata in senso “popolare” e questo abbiamo tentato rispolverando le loro poesie dalla muffa e immettendole in un cortocircuito di linguaggi che ridonassero loro la freschezza originaria. La scuola, lo sappiamo bene, uccide la cultura e la poesia.
In una situazione lirica così “armoniosa” spicca il linguaggio più esplicito di “Metrò”… ti va di parlarci di questo brano e del suo “ruolo” nell’economia dell’opera?
Nella dimensione erotica contemporanea, segnata nell’immaginario da una connotazione metropolitana e cittadina, il rapporto con il femminile in “Metrò” sta all’amore come, nel rapporto con la città, la sodomia sta alla conoscenza dell’altro. La scena è quella di una sodomia notturna in una metropolitana. Metropolitana essa stessa sodomizzatrice della città. Città sodomizzata e sodomizzatrice delle sue creature dentro un mostruoso budello notturno.
La sfasatura che si produce tra il mondo rappresentato in questo brano e quello, ad esempio, di “Rosa” è tutta legata alla perdita di spontaneità e dell’elemento ludico che contraddistingue la sfera amorosa così come viene vissuta oggi.
Un’altra traccia la cui ispirazione m’incuriosisce è “Monsieur Verdoux” … cosa ci puoi dire di questo brano?
In “Monsieur Verdoux” è nascosta, sotto le spoglie di un brano apparentemente più vicino alla tipologia dell’hard rock, un’impronta patetica e ironica allo stesso tempo. Il film di Chaplin da cui è ispirato descrive infatti criticamente, in una storia ambientata negli anni cinquanta e legata al clima di caccia alle streghe che si era creato in America subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’impossibilità di vivere di un tenero galantuomo che ha una moglie paralizzata e un bambino da sostentare. L’unico modo in cui l’eroe delicato può sopravvivere è quello di sposare ricche vedove ed ucciderle per ereditarne le sostanze. Nove mogli ammazzate, dice Chaplin. E’ il numero delle vittime che rende “eroi”, un po’ come in guerra. Quel mondo che costringeva un onesto impiegato di banca a divenire criminale non poteva che ridurre l’amore ad un processo puramente economico, mercificato, in cui non c’è spazio per l’altro, se non sotto un metro di terra.
In questo senso “Monsieur Verdoux” rappresenta, in Terramare, una tappa di avvicinamento dalla modernità alla post-modernità, verso “Metrò” per intenderci. Ciò che ancora sopravvive, infatti, nel microcosmo di Verdoux è l’elemento patetico e ironico che scompare del tutto nella visione postmoderna di “Metrò”.
Dal punto di vista musicale, “Terramare”, pur conservando il Vs. tipico trademark, mi è sembrato più “viscerale” e in alcune circostanze anche maggiormente diretto (penso all’intrigante bellezza di “Rosa”, ai fraseggi tipicamente hard-rock di “Monsieur Verdoux” o al ritornello assimilabile di “Libera”, per esempio). E’ stata una scelta ponderata, il risultato naturale di un’evoluzione o … semplicemente una mia personale impressione?
No, la tua impressione è giusta. I suoni sono più diretti, gli elementi della canzone più presenti (ritornelli più assimilabili come giustamente osservi). E’ stata sì una scelta, ma dettata da una necessità che ci spingeva a recuperare, come già ho detto, gli elementi “esterni” della contemporaneità, come fossero dei moduli di linguaggio da riassemblare secondo la nostra sensibilità.
Come nasce una Vs. canzone? Da intuizioni individuali o piuttosto da situazioni creative collettive?
Sono essenzialmente io che scrivo testi e musiche, ma il tutto è solo un canovaccio che prende forma e si modifica negli arrangiamenti e nelle strutture quando siamo in studio. In generale la gestazione di un nostro pezzo è molto lunga, anche se l’impronta iniziale può funzionare da subito. Un brano come “Rosa”, ad esempio, l’abbiamo scritto sette anni fa e l’abbiamo suonato da subito. La forma però che ha preso sul disco è frutto di una riscrittura totale avvenuta un anno fa, sulla spinta di una nuova presa di coscienza del brano all’interno dell’economia di tutto il disco. Tutto ciò, naturalmente nasce e si sviluppa collettivamente e, devo dire, è un lavoro faticoso ma coinvolgente.
Parliamo ora dei “coadiutori esterni” Tonino De Sisinno e Paola Feraiorni … Com’è nata questa pregevole collaborazione, in particolar modo, con la bravissima Paola?
E’ nata da un’esigenza di apertura che aveva seguito la crisi di cui ho parlato più sopra, ma soprattutto dal progetto di “Terramare” che stava nascendo con un impianto estetico legato al “contrasto”. In questo senso era chiaro che l’intervento delle percussioni stabiliva nuovi rapporti ritmici, mentre la voce femminile ampliava le possibilità armoniche e timbriche oltre che “rappresentare” nello specifico i brani costruiti sui duetti delle voci. Paola ama definirsi la ‘voce di contrasto’ di Arpia e in questo senso le sue capacità vocali ma anche teatrali sono importantissime per l’evoluzione futura del gruppo.
Riprendendo il discorso già accennato in precedenza di questa Vs. sorta di “isolamento” dalla scena musicale, la ritieni un’esigenza per la Vs. creatività, una reale difficoltà nel confrontarsi con questo “mondo” o cos’altro?
Un po’ entrambe le cose. In più direi che c’è un elemento psicologico, un po’ mio, un po’ di tutto il gruppo: una sorta di pudore o di timidezza che ci porta ad essere più riflessivi e meno disponibili a frequenti aperture nei confronti delle realtà musicali a noi vicine. D’altronde credo che solo ascoltando attentamente se stessi si può cogliere in profondità ciò che accade intorno a noi, il senso del nostro tempo.
Credi che la musica degli Arpia possa adattarsi alle “moderne” esigenze degli ascoltatori o si tratta di un aspetto che in fondo non t’interessa più di tanto?
Credo che la nostra musica sia figlia dei nostri tempi e che quindi possa essere ascoltata da chiunque abbia voglia di ascoltarla. Senza questa intenzione, comunque, è la nostra stessa musica che si chiude e non permette di essere accostata.
Siete insieme dal 1984 … In quest’ambiente fatto di scioglimenti anche solo dopo un album, rientri “inaspettati” e continui side projects, qual è il Vs. “segreto”?
Semplicemente non abbiamo mai tentato di divenire “professionisti della musica”; abbiamo da subito sgombrato il campo da velleità di successo o quant’altro; ci siamo concentrati su noi stessi e abbiamo cominciato a fare l’esperienza della scrittura e della creatività. Questo ci ha sempre salvati. Da sempre, poi, abbiamo capito l’importanza e la ricchezza di quello che andavamo facendo, non per presunzione intellettuale, ma semplicemente perché, facendolo, crescevamo senza ansie da prestazione, senza preoccupazioni legate a finalità esterne, senza frustrazioni. Così sono passati ventidue anni e non ce ne siamo accorti.
Quali sono i gruppi che ammiri e che senti maggiormente vicini alla Vs. sensibilità artistica?
Penso sempre al passato perché non riesco a seguire la scena attuale. Diciamo i Pink Floyd fino a “The Wall”, i Van der Graaf Generator, i Radiohead.
In quale modo avete previsto di supportare l’uscita del disco e quali sono i prossimi passi degli Arpia (non vorrete mica, per quanto sia “dolce” l’attesa, farci aspettare di nuovo undici anni, vero?)
Allora. Per intanto il 17 dicembre si terrà la presentazione ufficiale del disco presso la Neo Art Gallery di Roma in occasione di una mostra personale di Ettore Frani, pittore emergente con cui abbiamo collaborato e che ha curato la copertina e il libretto di Terramare. Poi è in allestimento un concerto-spettacolo dai forti contenuti teatrali che andrà in scena a Roma a gennaio. Altri concerti sono previsti in Veneto a fine gennaio, a Roma la Jealbreak a febbraio, in Slovenia e in Croazia per marzo.
Per quanto riguarda un nuovo disco abbiamo in progetto una riedizione nei prossimi mesi di “Resurrezione e Metamorfosi”, un nostro vecchio lavoro della fine degli anni ottanta.
Tenuto conto della forza di suggestione delle Vs. composizioni e delle Vs. esperienze nell’ambito della ricerca teatrale e delle contaminazioni estetiche durante le esibizioni dal vivo, non avete mai pensato di cimentarvi anche in qualche forma espressiva esplicitamente indirizzata alle arti visuali vere e proprie?
Da questo punto di vista stiamo collaborando con una video artista, Maria Pizzi, che sta preparando un video per “Monsieur Verdoux” che uscirà a breve. Si tratterà di un lavoro molto particolare viste le esperienze figurative della Pizzi, legata alla trans avanguardia e premiata il 5 dicembre all’Acquario di Roma in occasione del premio Achille Bonito Oliva.
Siamo arrivati alla domanda più futile … Quali sono i tre album irrinunciabili della tua collezione di dischi e perché?
Non so se risponderò bene a questa domanda: è troppo difficile. Diciamo “The Wall”, “Selling England by the pound”, “…And justice for all”. Le motivazioni sono legate non solo a fattori estetici, ma anche a sentimenti e affetti che, ancora, mi muovono questi dischi.
Nel ringraziarti ancora per la tua disponibilità, ora puoi concludere con il classico “argomento a piacere” …
Voglio ringraziarti per le tue domande, che mi hanno permesso di spiegare a fondo e con dovizia di particolari aspetti della nostra musica che di solito non emergono in queste circostanze. La sensibilità e la passione che tu ed altri addetti ai lavori mettete nel vostro lavoro è importantissima per gruppi come il nostro. Un grazie va anche ai lettori di EUTK sperando di avere l’occasione di incontrarci in occasione di qualche nostro concerto.