I Tiamat, uno dei gruppi di punta del movimento gothic metal scandinavo, sono finalmente tornati ai livelli che li hanno resi famosi, grazie al loro album più recente, l’affascinante “Prey”. Dopo un paio di episodi non completamente convincenti (“Skeleton Skeletron” e il dispersivo “Judas Christ”), Johan Edlund e compagni hanno ritrovato lo stile dei tempi migliori, ed il risultato è un disco di gran classe che non mancherà di procurare nuovi fans alla band.
Ne abbiamo parlato con lo stesso Edlund, che con molta cordialità si è prestato a rispondere a tutte le nostre domande…
Il vostro nuovo album “Prey” ha la particolarità di suonare più come un’unica e articolata canzone, che non come una raccolta di brani distinti. Che ne pensi?
”Sono d’accordo, perché questa era proprio l’intenzione che ci eravamo prefissi: volevamo produrre un disco più compatto rispetto al passato, un album in cui tutte le canzoni si integrassero alla perfezione nell’atmosfera particolare che si stava creando. Abbiamo voluto evitare tutte quelle sperimentazioni che erano presenti per esempio su ‘Judas Christ’, su cui avevamo addirittura provato a suonare un pezzo country! Alla fine ci siamo resi conto che avremmo dovuto suonare ciò che ci viene più spontaneo e che facciamo meglio, ed infatti il sound che si può sentire su ‘Prey’ è proprio quello tipico dei Tiamat. Credo che ‘Prey’ abbia dei punti di contatto con alcuni dei nostri lavori meno recenti, come ‘A Deeper Kind Of Slumber’, di cui riprende certe atmosfere.”
Come mai hai scelto un titolo come “Prey”?
“Certe volte mi sento io stesso come una preda, in un certo senso: fin da quando nasciamo siamo sempre sotto l’influenza di qualcosa o qualcuno che finisce per limitarci e prendere il nostro controllo. Si può trattare di amore, droga, religione, o di qualsiasi altra cosa che prima o poi prova a manovrare la nostra vita.”
Vuol dire che “Prey” è un concept album?
“No, non ho mai scritto un concept album in tutta la mia vita. Nonostante questo, gli argomenti delle canzoni sono tutti in qualche modo collegati fra di loro; è anche il motivo per cui spesso mi sento rivolgere questa domanda, praticamente riguardo a tutti gli album che abbiamo fatto. In effetti, più di una volta avrei potuto realizzare un concept, ma ho preferito non farlo. Non è sempre ovvio che un gruppo di canzoni collegate fra di loro debbano per forza diventare un concept… Voglio dire: in un certo senso i nostri album potrebbero essere considerati tali, perché gli argomenti trattati nei testi sono spesso molto simili fra di loro, ma non c’è mai stata una vera e propria storia che collegasse tutti pezzi.”
Hai definito questo come il vostro album più personale: cosa intendevi di preciso?
”Ad essere sinceri, credo che tutti i nostri dischi siano molto personali. ‘Prey’ lo è forse più degli altri, ma ciò non significa che quelli precedenti non lo fossero. Potrei definire il disco nuovo come un po’ più ‘serio’ rispetto agli ultimi che avevamo realizzato. In ogni caso, noi siamo stati sempre molto onesti con noi stessi, tutto dipende dallo stato d’animo che abbiamo nel momento in cui ci accingiamo a produrre un album nuovo. Per esempio, se fossimo stati sempre sereni e felici della nostra vita, credo che non avremmo mai composto un album come ‘A Deeper Kind Of Slumber. Comunque, come ho già detto in precedenza, sono dell’idea che il tipo di musica che potete sentire su ‘Prey’ sia quello che ci riesce meglio in assoluto. I Tiamat per me rappresentano un modo unico per esprimere le mie emozioni, e per questo è fondamentale essere sempre spontanei e pronti ad affrontare temi piuttosto personali. Se un giorno dovessi rendermi conto di non essere più disposto ad aprirmi e dare voce alle mie emozioni, la mossa più corretta da fare sarebbe sciogliere i Tiamat e formare un’altra band…”
Che relazione c’è fra il titolo dell’album e la copertina?
”Sulla copertina sono messi in evidenza gli artigli del cacciatore, ma non la stessa preda: non è chiaro, insomma, chi o cosa sia la preda che si è ritrovata quegli artigli addosso. Abbiamo voluto lasciare all’intuito dell’ascoltatore il compito di scoprirne l’identità…”
Si ha l’impressione che, sugli ultimi album, tu abbia cercato di scrivere testi un po’ diversi dal solito, e di trattare argomenti più concreti e meno astratti…
“Non credo ci sia una grande differenza fra i testi di questo ultimo disco e i precedenti. In fondo, gli argomenti di cui parliamo possono essere raggruppati tutti sotto tre categorie: amore, morte e religione. Tutto quello di cui scriviamo, bene o male, può essere considerato all’interno di questi tre grandi argomenti. Anche su ‘Judas Christ’, i testi parlavano bene o male delle stesse cose. Probabilmente ho cercato di parlarne in maniera più diretta, e forse è stato un passaggio obbligato per arrivare a scrivere un album come ‘Prey’. Io ho la tendenza a non rinnegare niente di ciò che ho fatto in passato, perché credo che tutto ciò che accade nella carriera di un musicista, inclusi i side projects, finisca poi per influenzare le produzioni successive.”
Come è stato composto e registrato “Prey”?
”Ho scritto personalmente tutte le canzoni, e dopo di che abbiamo registrato direttamente nel mio studio casalingo. La batteria è stato l’unico strumento che abbiamo deciso di registrare in un altro studio svedese, ma tutto il resto è stato prodotto a casa mia. La decisione di produrre tutto per conto nostro deriva dal fatto che i produttori che possiamo contattare, al giorno d’oggi, finiscono per essere dei semplici ingegneri del suono sui nostri lavori. Questo perché ormai esistiamo da molto tempo, e sappiamo benissimo che tipo di sound vogliamo ottenere su ogni disco; perciò, finiamo per essere noi stessi a prendere le decisioni più importanti in fase di produzione. Una volta che ci siamo resi conto di tutto questo, abbiamo pensato di poter fare a meno dei produttori esterni, anche perché avevo già prodotto parecchi demo prima d’ora ed ho ritenuto che fossimo in grado di gestire tutto il processo da soli.”
Puoi parlarci del brano “The Pentagram”, ispirato al lavoro di Aleister Crowley?
”Certo, il testo della canzone è in effetti quello originale di Crowley, che considero un’ottima spiegazione del significato del Pentagramma. Non solo si tratta di un’interpretazione molto intelligente del simbolo in questione, ma considero anche notevole la capacità dell’autore di racchiudere l’essenza del Pentagramma in soli cinque versi. Secondo me ‘The Pentagram’ rappresenta un buon punto di partenza per addentrarsi nella filosofia di Crowley e per cercare di capire il significato di certi simboli. Personalmente mi riconosco in molti dei pensieri di Crowley, e mi sono sempre interessato alle sue teorie sui rituali magici: penso che dovremmo cercare di dare un po’ più di importanza a queste cose, poiché sono convinto che alcuni piccoli rituali potrebbero aiutarci, anche nella vita di tutti i giorni, a focalizzare meglio i nostri obbiettivi.”
I Tiamat sono sempre stati identificati con la tua persona: si può ancora parlare di una vera band oppure credi che si tratti più che altro di un tuo progetto personale?
”Vedete, i Tiamat non potrebbero mai suonare allo stesso modo, se non ci fossero gli altri tre membri: se io un giorno dovessi decidere di avvalermi della collaborazione di qualche session man, sicuramente il risultato finale sarebbe molto diverso dal solito. Bisogna tenere conto che ho scritto le canzoni tenendo bene a mente che a suonarle sarebbero stati i miei compagni di gruppo. Suoniamo insieme da molto tempo, ormai, e quindi so esattamente come Lars suona la batteria e come Anders suona il basso. Per esempio, nel momento in cui passo a programmare la drum machine per le parti di batteria, lo faccio conoscendo bene lo stile di Lars e pensando cose del tipo “in questo punto lui andrebbe a colpire il crash”, e così via. Questo significa, in poche parole, che sebbene io sia l’unico compositore, in realtà gli altri componenti della band influenzano pesantemente il songwriting, pur non essendo presenti.”
Sull’album ci sono almeno un paio di brani che si distinguono, “Divided” e “Carry Your Cross And I’ll Carry Mine, su cui ci sono delle eccellenti parti vocali femminili: con che criterio decidi di affidare certe canzoni ad una voce diversa?
”Per quanto riguarda quelle canzoni, devo dire che fin dal momento in cui le ho scritte le consideravo buone, ma ho sempre avuto la sensazione che mancasse qualcosa. Non mi sentivo a mio agio cantando quelle parti, mi sembrava quasi innaturale per me. A quel punto, ho pensato che non sarebbe stata una cattiva idea fare cantare ad una ragazza un paio di brani sui tredici totali, si sarebbe trattato di qualcosa di diverso che avrebbe solo migliorato la qualità delle canzoni. Su ‘Carry Your Cross…’ in particolare, io canto solo alcuni cori, ma fin dall’inizio il brano è stato concepito per essere cantato da una voce femminile. ‘Divided’ invece è più considerabile come un duetto, e la cosa ha un senso perché il testo prevede proprio un’interazione fra due persone.”
Sul disco precedente c’era un singolo, ‘Vote For Love’, che aveva tutti i numeri per poter ottenere un certo successo in termini commerciali. Credi che fra le canzoni di ‘Prey’ ce ne sia una con le stesse caratteristiche?
”Io non credo che averne una sia importante… anzi, direi che non bisogna assolutamente pensare ad un eventuale successo commerciale, mentre si fa un disco. Il termine ‘commerciale’, in fondo, è molto spesso usato a sproposito: ciò che è commerciale per noi, può non esserlo per altri artisti. Per esempio, il nostro maggiore successo è rappresentato da ‘Wildhoney’, il cui sound non era certo di facile assimilazione. In ogni caso, penso che ‘Prey’ non suoni in alcun modo come un disco ‘commerciale’, ma questo non vuol dire che non possa vendere bene. Il vero successo, per me, è realizzare un disco, riuscire a pubblicarlo ed esserne soddisfatto: questo, comunque vada, è sempre il risultato migliore per un musicista.”
Si può dire che la musica classica ha influenzato lo stile dei Tiamat?
”In parte. Non posso dire di essere un cultore di musica classica, ma ci sono delle composizioni che ho sempre amato e si tratta per lo più di cose piuttosto semplici, con melodie orecchiabili e strutture non eccessivamente complesse. Non mi piace troppo la musica classica nelle sue espressioni più complicate, mi sembra troppo confusa a quel punto… ma forse sono io a non essere abbastanza intelligente per poterla capire! [risate, Nda]”
Che tipo di musica ascolti ultimamente?
”Sembrerà strano, ma negli ultimi due anni ho ascoltato moltissimo Johnny Cash. Fino a qualche anno fa il suo genere non mi ha mai attirato, ma da quando mi ci sono avvicinato, ho scoperto veramente un grande artista. Posso dire di apprezzare molto quegli anziani cantanti che sono sempre tristi, ubriachi e con una voce bassissima, gente come Nick Cave, John Waits e così via…”
Ti senti ancora vicino alla scena metal?
”In un certo senso sì, anche se forse non mi riconosco molto nella definizione che di solito danno ai Tiamat, che è ‘gothic metal’. A dire il vero, ripensando al tipo di musica con cui sono cresciuto, non è del tutto sbagliato usare una tale definizione: i miei gruppi preferiti erano gli Slayer ed i Fields Of The Nephilim, e se consideriamo un album come ‘Wildhoney’, è in pratica un incrocio fra gli stili di queste due bands. Però è anche vero che ci siamo evoluti col passare del tempo, e oggi forse quella definizione ci va un po’ stretta. Ad ogni modo, mi sento ancora parte della scena metal, non fosse altro che per il fatto che praticamente tutti i miei amici fanno parte di gruppi metal: per esempio, spesso mi trovo a uscire con i ragazzi degli In Flames, così come di altri gruppi, anche di black metal. Questo però non significa che dobbiamo per forza metterci a suonare come loro…”
Molti gruppi hanno la tendenza a rinnegare i propri dischi d’esordio; tu cosa pensi, oggi, dei primissimi lavori dei Tiamat come “Sumerian Cry” o “The Astral Sleep”?
“Mi piacciono ancora molto, soprattutto ‘Sumerian Cry’ per le sue atmosfere: all’epoca avevamo un sound primitivo e sono convinto che se oggi registrassimo di nuovo quelle canzoni, ne verrebbe fuori un album migliore da molti punti di vista, ma ciò non significa che ‘Sumerian Cry’ non sia un album speciale per noi. In fondo era il nostro primo disco e lo abbiamo realizzato con grande entusiasmo ed eccitazione. Considerando poi ‘The Astral Sleep’, direi che è stato anch’esso un album molto importante in quanto è chiaro che stavamo iniziando a scoprire un certo tipo di sound: non eravamo ancora molto sicuri di noi stessi, ma senza dubbio quello è stato l’album su cui abbiamo gettato le basi per il nostro futuro, e se oggi abbiamo un certo sound, lo dobbiamo in gran parte all’evoluzione che è partita da quel disco. Sono molto fiero anche di ‘Wildhoney’, come già ho avuto modo di dire, quindi direi che non ho nessun problema nel parlare dei nostri vecchi dischi.”
Che caratteristiche ha il vostro live show attuale?
“Siamo tornati un po’ ai tempi dei tour di ‘Wildhoney’ e ‘A Deeper Kind Of Slumber’, durante i quali usavamo parecchie luci ed effetti visivi. Durante gli ultimi due tour ci siamo presentati in maniera più schietta ed essenziale, ovviamente senza dimenticare le luci ma senza dubbio usandole meno che in passato. Questa volta abbiamo quindi voluto riprendere quel genere di show.”