Non riesco a slegare un disco da “come suona” e da chi c’è dietro a quel “suono”. Perché una (piccola) verità esiste, e cioè che un brano scritto bene e prodotto male passerà sempre inosservato rispetto a un brano scritto bene e prodotto bene (quello scritto male e prodotto male lasciamolo pure fuori da questo portale). Alle spalle degli
Angra degli esordi ci sono due personaggi che magari dicono poco, ma che di fatto sono stati (e sono tuttora) dei veri e propri artefici di un certo tipo di sound complesso, pomposo e a tratti estremamente elaborato. I responsabili nello specifico sono Charlie Bauerfeind (affermato ingegnere del suono per Blind Guardian, Rage, Helloween e Gamma Ray per citare i più noti) e Sascha Paeth, i cui servigi tecnici renderanno celebri, tra gli altri, i nostrani Rhapsody/Luca Turilli e le produzioni più recenti di Tobias Sammet. Fatta questa doverosa premessa per rendere giustizia a persone che altrimenti finirebbero nel dimenticatoio, cominciamo a parlare di questo “Holy Land”, probabilmente il punto più alto raggiunto dalla formazione “classica” degli Angra con André Matos alla voce. L’album, riducendo ai minimi termini, è un concept che narra dei viaggi alla scoperta del continente sudamericano (una volta aperto il libretto ci si ritrova in mano una mappa) nel Cinquecento a cavallo della colonizzazione portoghese. Ecco allora che il “suono” più prettamente metal del combo carioca si apre a strumenti classici, a percussioni brasiliane e ad arrangiamenti “progressivi” nel senso più puro del termine, ben oltre quei limiti valicati con il precedente “Angels Cry”. “Holy Land” è un caleidoscopio di sonorità che vanno dalla musica classica (l’introduttiva “Crossing” è un brano per coro di Giovanni Pierluigi da Palestrina) alla musica etnica (“Carolina IV” e “The Shaman”), passando per il metal tout-court (“Nothing To Say” e “Z.I.T.O.”) e le ballate pianistiche del sopraccitato Matos (“Make Believe” e “Deep Blue”). In una parola sola un album “raffinato”, termine poco utilizzato in ambito metal, ma che in questo caso calza a pennello.
A cura di Gabriele Marangoni