E se i
Riot non fossero solo semplicemente una band di heavy metal? Nel senso che per il sottoscritto la band di New York ha sempre incarnato (soprattutto negli eighties) il più puro e furente fervore giovanile della band di strada, ben prima che la codificazione street metal avesse il suo riconoscimento.
Ho sempre pensato che senza il combo del funambolico
Mark Reale molto probabilmente non avremmo avuto dischi come '
Under The Blade' dei
Twisted Sister, in un ipotetico classico family tree.
E fu proprio Mark Reale a fondare la band nel '75 ed i Riot di conseguenza fondarono la loro etichetta (Fire Sign) per pubblicare un disco il più presto possibile e dopo molte trattative l'album d'esordio ('
Rock City') è addirittura pubblicato in Francia dall'Ariola nel '77.
Quindi la Capitol si assicura i servigi della band per il secondo, e ancora una volta fantastico album, '
Narita' nel '79.
Per arrivare dunque al classico per antonomasia, questo '
Fire Down Under' che li vede un'altra volta cambiare etichetta, anche perché la Capitol pare avesse spinto per avere materiale radiofonico sulla scia dei
Foreigner, ed il disco vide la luce grazie anche ad un plebiscito dei fans, pronti a supportare i newyorkesi in ogni maniera al fine di non arrendersi a pressioni smodatamente commerciali.
Ed a scorrere la track list di 'Fire Down Under' si ha quasi soggezione; si parte con '
Sword And Tequila' e si ha subito a che fare con un riff immediatamente leggendario, supportato da un refrain stellare dove la voce adamantina e potentissima di
Speranza è un valore aggiunto, grazie ad una esuberanza difficile da replicare.
'
Fire Down Under' rincara la dose accelerando, sembra una scheggia impazzita con un Reale monumentale ed uno Speranza indiavolato.
'
Feel The Same' è a combustione più lenta, un mid tempo di grande efficacia, prima di '
Outlaw' che è un gioiello tra i gioielli, forse la canzone meglio focalizzata di tutto 'Fire Down Under': riff micidiale tra hard rock e heavy e cori riverberati di grande presa, che donano alla canzone quasi una dimensione 'spaziale'.
'
Don't Bring me down' martella a dovere l'ascoltatore con una chitarra molto seventies e grazie ad una sezione ritmica molto mobile mentre '
Don't Hold Back' attesta che nell'album non c'è un attimo di sosta: impossibile fermare l'headbanging.
'
Altar Of The King' è la canzone epica ed eroica del platter, grazie ad un intro di atmospheric power e ad un ritmo galoppante già in profumo di epic/power metal, '
No Lies' è costruita su un riff che definirei storico, è letteralmente impossibile resistergli, condita da un drumming scoppiettante.
'
Run For Your Life' è deragliante vi farà uscire fuori di testa, con un Speranza ancora una volta ciclopico.
'Fire Down Under' insomma è il classico disco immortale, difficilissimo se non impossibile da eguagliare, a margine di quella che sia la vostra personale lettura.