L’ho già detto in qualche altra occasione. I
Queensryche sono il mio gruppo preferito di sempre. Quello che, in un’analisi cumulativa, ha saputo riservarmi le emozioni più forti.
Nonostante tutto.
Malgrado i passi falsi, le scelte musicali non sempre condivisibili e lo scoprire che in fondo anche loro, “puri”, geniali, audaci e radiosi come pochi, dovevano comunque fare i conti con le “leggi” del mercato.
Qualche volta mi hanno deluso, e anche abbastanza profondamente, eppure la loro cifra artistica fortunatamente non è mai scesa sotto il livello di guardia, grazie ad un’intelligenza e ad una classe che li hanno tenuti a galla anche quando il paragone con le meraviglie del passato, in ogni caso talmente importanti da risultare un precedente quasi proibitivo, era obiettivamente non facile da sostenere.
Visti i presupposti, immaginate, quindi, quant’è difficile trovare la maniera per convincervi che “American soldier” è davvero un buon album e non “l’allucinazione” di un fan irriducibile che
vuole a tutti i costi non essere ancora una volta tradito dai suoi idoli.
Non posso affermare che il nuovo disco sia un
capolavoro, così come continuo a ritenere “Operation mindcrime” una vetta oggettivamente difficile da emulare (una sorta di “condanna” con cui i nostri dovranno presumibilmente convivere per sempre!), ma questo concept-album che si prefigge di raccontare l’esperienza dolorosa della guerra tramite gli occhi e i racconti diretti dei soldati (le cui parole autografe vengono spesso riprese all’interno delle canzoni) ci riconsegna una band matura, che mette da parte le concessioni palesi al business discografico (ammettiamolo, è veramente difficile credere nella “sincerità” di un’operazione come quella attuata con “Operation mindcrime II”) e riprende ad esplorare il lato più intimo e profondo della sua personalità, con quella prepotente forza espressiva e quella carica drammatica che solo una voce straordinariamente intensa e teatrale come quella di Geoff Tate (avete notato come la sua laringe nella “maturità” abbia acquisito talune piccole inflessioni Bowie-iane?) è in grado di sviluppare.
Non dirò neanche che si tratta di un lavoro
semplice da assimilare, non tanto per la sua complessità specifica, ma perché, vista la sua natura crepuscolare, esso non punta ad un impatto epidermico e conquista gradualmente e interiormente con una forma di rock ad ampio spettro in cui la componente energetica, pur presente, si esprime preferibilmente tramite massicce dosi di pathos ed è inserita in un’atmosfera elegante, malinconica e “notturna”, tanto da arrivare a consigliarne, per una fruizione ottimale, un ascolto in cuffia o quantomeno privo di “distrazioni” esterne.
Solo con un’audizione reiterata e concentrata si riuscirà, infatti, a cogliere la vera essenza di “American soldier”, andando oltre l’istantaneità garantita dalla lodevole enfasi irosa di “Sliver”, “Unafraid” e “Man down!”, e penetrare nelle melodie agrodolci di “Hundred mile stare” e “The killer” (caratterizzata, però, da un vago retrogusto pop non completamente focalizzato), scendere negli abissi emotivi di “At 30,000 ft.”, delle favolose “A dead man’s words” e “Middle of hell” (impreziosite da un suggestivo sax che nel primo caso squarcia una palpabile tensione ipnotica e nel secondo supporta una vaporosa linea melodica) o ancora dell’epica elegia di “If I were king”, ed infine immergersi nell’irresistibile ambientazione soffusa espressa in “Remember me”, “Home again” (Tate condivide il microfono con la figlia Emily, in una ballata dal sapore Pink Floyd-esque) e “The voice” (e qui fanno capolino addirittura i The Beatles).
Il glorioso passato è ancora là intatto, scintillante, scolpito indelebilmente nei nostri cuori che, seppur sempre speranzosi, sono razionalmente coscienti della sua verosimile irripetibilità, ma anche senza riconquistare l’apice della loro parabola creativa i Queensryche dimostrano di collocarsi nel suo ramo ascendente. E di questo non possiamo che esserne molto, molto felici.