Bah.
Credo sinceramente che questa sarà la recensione più difficile della mia carriera, almeno finora. Parlarvi del nuovo disco di quella che un tempo era la mia band preferita, e dovervi raccontare la miriade di sensazioni contrastanti che ha suscitato in me, è un’impresa ardua, e ardua è dire poco. Avevo un milione di buoni motivi per sperare che
“Black Clouds & Silver Linings” fosse il definitivo colpo di coda, che avrebbe riportato i Dream Theater saldamente in cima alla lista delle prog-metal legends: le dichiarazioni di Mike Portnoy, prima dell’uscita del cd, spingevano a pensare ad un ritorno al passato, avendo egli stesso citato brani della discografia DT che, al solo nominarli, ti vengono i brividi. Poco tempo dopo, un sample-miscuglione dei sei brani sembrava lasciar intravedere un ravvedimento, graditissimo seppur tardivo, ed una sterzata decisa contro quel riffeggiare pesantissimo e fine a se stesso che, ultimamente, sembrava aver snaturato ed inaridito la creatura di Petrucci e compagni. Le nubi, per dirla col titolo del disco, hanno cominciato a manifestarsi nel momento in cui i primi due brani sono stati resi ascoltabili, e nel momento in cui uno dei due, “A Rite of Passage”, diventava, nella sua versione “edit”, il primo singolo e video della band (video che vi allego in basso). Le tanto citate nubi, infatti, presero ad addensarsi sulla testa del povero Sbranf, colto di sorpresa da cotanta sfacciata, inspiegabile, inammissibile mancanza di rispetto verso le proprie doti musicali. Uno dopo l’altro, i miei castelli di carte hanno cominciato a vacillare, per poi crollare miseramente, almeno in parte.
Oggi, dopo sedicimila ascolti, non mi sento ancora pronto a parlarvi di “Black Clouds & Silver Linings”, ma è il mio dovere, lo devo fare, per cui eccovi, per sommi capi, le mie sensazioni riguardo ognuno dei 6 pezzi che compongono il nuovo album dei Dream Theater. Del booklet e della confezione non vi parlerò, visto che la Roadrunner ci ha fornito uno scarno dischetto, watermarkato a tal punto da non potersi ascoltare su nessun pc o mac; per questo motivo, ringrazio sentitamente la mia Yaris per avermi accolto con la sua autoradio mentre scrivo queste righe sul portatile, nel sedile di dietro. Si parte.
1.
A Nightmare to Remember – L’atmosfera, sin dalla prima nota, è cupa e dolorosa… Una tastiera lugubre centellina delle note su rumori di tuoni e tempesta, prima che esploda il motivo portante della canzone: chitarre bassissime, e una batteria lanciata ai duemila all’ora, settano l’atmosfera per un lungo brano (come quasi tutti, in questo disco) che narra la drammatica vicenda di un terribile incidente stradale, raccontato dagli occhi di uno dei protagonisti sopravvissuti. La prima cosa che salta all’orecchio è l’assoluta incompatibilità tra le varie parti della canzone, che sembrano accostate “a tavolino”… Me li vedo, Petrucci e Portnoy (sì, solo loro due, gli altri 3 ormai fanno i session di lusso, qui non c’è una nota che non sia stata decisa dai “Produttori”), a decretare e stabilire: “qui ci mettiamo una volta il riff iniziale, poi due volte quello dispari, poi ci fai 3 giri di assolo tu, poi gliene facciamo fare 2 a Jordan, poi ci metti la parte lenta, che piace…”. Bah. Il brano ha uno stacco centrale, relativo al lento e doloroso ricovero del protagonista e alla sua terapia riabilitativa, che è una delle poche cose deliziose di questo pezzo: scritto ed eseguito in punta di piedi, con un refrain veramente bello e delicato. Capite ancor di più quanta rabbia mi venga, ad ascoltare e pensare a cosa poteva essere e non è stato. Il finale è un crescendo, che riporta la band a ruggire in maniera esagerata, con Portnoy che (di nuovo!!!) si improvvisa alle “growls” (virgolette d’obbligo) ed una conclusione in blast beats (giuro!), che sembrano i Dimmu Borgir! Impressionante, per carità, ma CHE DIAVOLO C’ENTRA CON I DREAM THEATER??? Bah. Voto: 5
2.
A Rite of Passage – Il primo singolo del nuovo album è una power song con un riff orientaleggiante, neanche tanto male, se non fosse quanto di più banale mai sentito. La trama racconta di logge massoniche e riti di iniziazione, ed ancora una volta vi ritroverete a pensare dove diavolo sia finita la superba tecnica esecutiva di Petrucci e Rudess, che mai come in questo album si limitano a vomitare tonnellate di note alla velocità della luce, senza lasciarne una al buon gusto. Altro pezzo fatto col copia-incolla, orecchiabile e radio-friendly quanto basta per accontentare la label. Bah. Voto: 6-
3.
Wither – La traccia n°3 è un lento, unico brano breve del lotto, dalle chiare influenze Beatles – Pink Floyd – Queen, tanto care a Mike. James LaBrie, in questo brano come in tutti gli altri, non accenna minimamente ad osare un acuto, un passaggio vocale degno di nota, limitandosi a fare bene il compitino scritto dagli altri. Banale, seppur godibile, e con il solito assolo fuori luogo. Bah. Voto: 6
4.
The Shattered Fortress – Eccolo, il pezzo che più aspettavo. La conclusione della AA Saga, che cominciò su “Six Degrees” con “The Glass Prison”, continuando a raccontare la dolorosa storia di riabilitazione dalla dipendenza da alcool di Mike Portnoy. L’ultimo capitolo sarebbe dovuto essere l’epitome dell’intera saga, una definitiva consacrazione della storia e della tanta buona musica che l’aveva preceduta. Ed invece? Ed invece altro non è che un’accozzaglia sonora fatta MALE con i vari riffs e motivi portanti delle altre songs. L’idea era esattamente quella che tutti sognavano, concludere con una grande canzone che citasse tutte le altre, ma dio mio, qui non c’è una sola ragione che lega le varie parti in maniera organica!!! I riff si succedono con forzata continuità, Portnoy torna a fare il duro al microfono, i solos sono acceleratore e basta, Myung è dato per disperso, ingiustamente sepolto sotto tonnellate di chitarre, Rudess non si ribella ad una band che sacrifica in maniera criminale le sue immense doti allo strumento. Ma perché? Bah. Voto: 4
5.
The Best of Times – Quando cominciavo a perdere ogni speranza, finalmente un timido raggio di sole. “The Best of Times” è stata scritta da Mike Portnoy (ancora lui) in memoria del padre, recentemente scomparso, e racconta della loro vita insieme, e del dolore e della nostalgia di una perdita così importante. Finalmente sento aria fresca arrivare ai miei polmoni: la base portante è un motivo in 7 molto Rushiano, che richiama anche alla mente “Surrounded” per le sue atmosfere ariose. James continua a cantare basso basso che fa venire i nervi, peraltro su un testo banale in maniera fastidiosa; il chorus è carino ed il brano gode finalmente di un Jordan Rudess dotato dello spazio che merita, suoni indegni a parte. Una song che, nel tempo, si dimostra la migliore del lotto, ma che forse ha la pecca di spiccare solo per la manifesta inferiorità degli avversari, vista anche l’ennesima lunghissima coda di assolo di Petrucci, e veramente non se ne può più. Bah. Voto: 7
6.
The Count of Tuscany – L’ultima lunga suite di “Black Clouds & Silver Linings” aveva acceso le discussioni nei vari forums, per il titolo enigmatico. C’era chi parlava di presunte amicizie tra Myung ed un nobile toscano, e quindi si sperava che la canzone fosse scritta dal taciturno bassista dei DT… Niente di tutto questo, of course. In questo disco tutto è scritto da Petrucci e Portnoy, se non l’avevate capito. Ciò nonostante, anche questa lunga canzone ha un appeal interessante, mostrando il lato più prog della band. La storia parla di un misterioso incontro con un nobile decaduto, il quale trascinerà l’ascoltatore in un’avventura oscura e dalle nefande conseguenze; le varie sezioni, con la solita assenza di legame tra di esse, ci accompagneranno in maniera altalenante, fornendo sensazioni tra le più disparate, ma lamentando, ancora una volta, la generale pochezza del momento ispirativo e compositivo. Una lunga track che risente anche della posizione sbagliata in scaletta, essendo forse il pezzo meno adatto a chiudere il disco. Bah. Voto: 6 e mezzo.
Sono riuscito, almeno in parte, a darvi un’idea di come suona questo “Black Clouds & Silver Linings”? Chissà. Sembrano lontanissimi i tempi in cui mi esaltavo per l’uscita di
“Octavarium”, forse l’ultimo raggio di sole di una band che, lentamente ma inesorabilmente, ha abbandonato ogni velleità artistica per diventare una macchina sputa-soldi. Un tradimento già palese con il precedente
“Systematic Chaos”, ma che ora sembra aver raggiunto proporzioni inaccettabili per chiunque abbia amato il glorioso passato dei Dream Theater. E si badi, qui nessuno voleva un secondo “Images and Words”, “Awake”, “Scenes from a Memory” e roba varia; è che hai la netta sensazione, ascoltando più e più volte questo disco, che la capacità di scrivere ancora su alti livelli non è affatto svanita, ma è volutamente messa da parte, per fretta, per calcolo, per interessi estranei al concetto di Musica. È questa la cosa che più mi fa schiumare di rabbia, ascoltando “Black Clouds & Silver Linings”: non è tollerabile che, pur di pubblicare ogni anno qualcosa, una band dalla caratura eccezionale come i Dream Theater si pieghi a simili compromessi con se stessa, rilasciando in fretta e furia un album talmente privo di ispirazione da risultare imbarazzante.
Due parole sulle esibizioni dei vari membri della band:
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James LaBrie: che spreco. Proprio ora che il canadese sembrava aver ritrovato la padronanza del suo intero spettro vocale, ecco che accetta supinamente di cantare brani dalle linee scandalosamente banali, e mai una nota al di sopra del range di chiunque di voi mentre fa la doccia. Un unico acuto degno di lui in “The Shattered Fortress”, e pure lanciato lì in maniera sguaiata e graffiata. Non ho parole.
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John Petrucci: e basta. Il mio chitarrista preferito di un tempo, uno dei miei miti musicali di sempre, ha veramente rotto. Possibile che un musicista di tale livello si ostini a scrivere riffacci pesantoni, e a non fare un assolo a meno di 200 note al secondo? Dov’è finito l’estro, la padronanza delle diverse tecniche, il gusto nella scelta dei suoni? Qui sono solo chitarrone a 7 corde e vagonate di note fini a se stesse.
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Mike Portnoy: il complesso di superiorità di quest’uomo comincia ad essere imbarazzante, oltre che dannoso. A parte un paio di momenti dove si ricorda di essere (stato) uno dei migliori batteristi del pianeta, Mike sembra più interessato ad esprimere rabbia e violenza, a cantare (cantare??? Quello è cantare???) ed a controllare tutto lui, novello Berlusconi del prog-metal. Un altro mito che cade.
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John Myung: chi??? Non pervenuto! Per il 90% del disco, il povero John “2” è costretto a seguire pedissequamente i riffoni di John “1”, senza poter apportare un contributo compositivo di una nota all’intero progetto; ormai relegato a ruolo di mero esecutore, la perdita del suo gusto in fase creativa è un altro dei delitti dei Dream Theater targati Roadrunner.
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Jordan Rudess: stiamo scherzando, vero? Cioè, tu riesci ad avere nella band uno dei mostri sacri delle tastiere moderne, e gli fai fare due soli con i suonini distorti e una serie di tappeti a stento udibili? Ma perché questo genio delle tastiere non si ribella? Uno del suo spessore non deve e non può farsi castrare così nella sua espressione artistica! Calcolo e interesse economico anche per te, Jordan? Hai cominciato a vedere dei soldini, e hai deciso di cavalcare la tigre, finché ce n’è? Puah.
Tiro le somme.
“Black Clouds & Silver Linings” è un disco
brutto. Un disco esageratamente pieno di suoni, e vuoto di idee, reso ancor più brutto dal fatto che è un disco dei Dream Theater: gente che, quando vuole, sa regalarti emozioni immense con una sola canzone. Ed è proprio questo, il punto: non vuole. La band, per motivi a me oscuri (soldi???), sceglie di suicidarsi musicalmente con un lavoro ben al di sotto delle proprie capacità compositive. Il fatto di pubblicare un’edizione speciale con 6 covers* STUPENDE e stupendamente eseguite (sentite LaBrie su “Stargazer” e rabbrividite…), eleva all’ennesima potenza la rabbia di sentir suonare un gruppo strepitoso, che esegue canzoni BRUTTE. Che peccato. Bah.
*Cover Cd tracklisting:
1. Stargazer (Rainbow) - 8:10
2. Tenement Funster/Flick of the Wrist/Lily of the Valley (Queen) - 8:16
3. Odyssey (Dixie Dregs) - 7:59
4. Take Your Fingers From My Hair (Zebra) - 8:18
5. Larks' Tongues in Aspic, Part Two (King Crimson) - 6:30
6. To Tame a Land (Iron Maiden) - 7:15