Se togliessimo ai Nashville Pussy la componente erotico-boccaccesca rappresentata dalle due tipe (neppure esageratamente belle...), le quali amano stimolare il pubblico non soltanto con la perizia strumentale, da tempo sarebbero stati infilati nel calderone stoner/heavy alternativo dove oramai si piazza qualunque formazione che non suoni propriamente “metal” o che non ci smarroni con le melasse melodico-commerciali.
In effetti il loro dirty-rock non appare così diverso (e a tratti meno originale..) dalle proposte di gentaglia come The Glasspack, Iron Boss, Puny Human, M-Squad, Smoke, Gideon Smith, Hammerlock, ecc, gruppi dall’immagine zero quindi per nulla spendibili nel mercato mediatico-commerciale, che badano al sodo di una rinnovata voglia di rock’n’roll grezzo, distorto e spaccaossa che se ne frega di apparire trendy.
Ma i Nashville Pussy, astutamente e ruffianamente, hanno spinto forte sulla carta del sex&drugs&rock’n’roll facendo colpo sul pubblico di un settore ancora oggi prettamente maschile e tutto sommato un po’ ingenuo e non abituato a vedersi sbattere in faccia tette e culi come piovesse.
Perciò la creatura di Blaine Cartwright, il Lemmy a Stelle e Strisce, è diventata fenomeno di una certa importanza a livello internazionale, lasciando i succitati compatrioti a sopravvivere nell’underground per bearsi delle luci della ribalta e dei plausi di una critica che non si sforza di ficcare il naso sotto la superficie del panorama musicale.
Detto così sembrerebbe che io non apprezzi il quartetto del Kentucky, niente di più sbagliato. Magari incensati oltre i loro meriti, eletti a paladini di un genere che pareva defunto e che ora è più vitale che mai, badando più alla forma che alla sostanza, ma sarei falso e ipocrita se dicessi che “Say something nasty” non mi è piaciuto.
Buon album, grintoso e schietto, zeppo di riffoni alla Ac/Dc-Ted Nugent e di ritornelli alcolici, rozzo e genuino ma non deragliante ed anche discretamente suonato.
Mazzate hard’n’roll chiassose come “You give drugs a bad name”,”Jack shack” o l’infernale “Let’s get the hell outta here” vi scrollano finalmente le ragnatele di dosso e Dio sa quanto ce ne sia bisogno.
Immancabile la spruzzata southern-boogie ben schitarrata ed urlata (“Keep them things away from me”) e forte agitarsi degli spettri dei fratelli Young al cospetto della title-track e di altri brani che sembrano outtakes di “Higway to hell”, ma che sprizzano comunque energia fulminante, brutalmente diretti e rissosi, ed in tempi lagnosi come questi è tutto grasso che cola.
Poi c’è una sventagliata di cover che mi fa salire il gradimento, “Beat me senseless” stava nel tributo ai Circle Jerks e “Rock’n’roll hoochie coo” è un vetusto pezzo di Rick Derringer, ma nell’edizione Europea ci sono tre bonus da urlo: “The kids are back” dei poseroni Twisted Sister, l’anthem Southern-metal “Flirtin’ with disaster” dei Molly Hatchet e la mitica “Age of Pamparius” dei redivivi Turbonegro.
Le versioni dei Nashville sono fedeli agli originali e per una volta dico che è meglio così, non cerchiamo complicazioni.
Quindi giudizio positivo, disco che ho ascoltato ed ascolterò ancora parecchie volte. Non sono fenomeni i quattro Americani, nemmeno grandi ideatori, ma fanno bene ciò che devono fare. Suonare forte, bere tanto e bombardarci di “pussy”. Basta e avanza.
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