Nel sottobosco delle infinite nicchie musicali, si è notato di recente un ritorno d’interesse per il rock psico-progressivo. Gruppi come Black Mountain, Jex Thoth, Diagonal, hanno ottenuto riscontri positivi con proposte ispirate ad una scuola stilistica molto antica, che si pensava ormai superata e dimenticata. La tendenza viene pienamente confermata anche nell’esordio degli
Astra, formazione di San Diego.
Un disco che non ha nulla di americano, ma trasuda invece di riferimenti al rock prog-romantico britannico degli anni ’70. King Crimson, Pink Floyd, Van Der Graaf, i Genesis di Peter Gabriel, ecc, spuntano dagli ottanta scintillanti minuti di musica, inglobati in lunghi brani che alternano vertiginosi voli spaziali a delicate fasi poetiche di gusto folkeggiante.
Il quintetto riesce però abilmente ad evitare quella pomposità barocca, che spesso in passato aveva affossato questo stile. E l’impianto sonoro affascinante, ricco di complessità, liquida psichedelia, voci eteree e sognanti, grandi arabeschi strumentali, sfugge con bravura alla prolissità tediosa creando atmosfere sempre diverse e splendidamente concatenate.
Nella notevole qualità del lavoro, si possono sottolineare i toni magici, onirici, la varietà di soluzioni della bellissima title-track, e la monumentale suite “Ouroboros”, diciassette minuti di purissimo rock progressivo adornato dagli emozionanti meandri chitarristici dell’eccellente Brian Ellis, vero protagonista di questo album.
Un genere che non tornerà certo di moda, ma viene mantenuto vivo e vitale da formazioni di spiccata personalità come gli Astra.
Il loro debutto può seriamente finire nella mia playlist di fine anno.
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