Ci sono essenzialmente due “amori” nell’esistenza artistica dei
Failure.
Da un lato, l’ardente infatuazione per il grunge e per i Nirvana in particolare, che ha caratterizzato gli esordi del gruppo ligure (autori di un demo nel 2006, “No way”) e che è piuttosto difficile da “dimenticare”, dall’altro una serie di passioni più “moderne”, come il crossover e il metal core.
“Bad karma”, il loro primo Ep autoprodotto, sembra proprio evidenziare il “conflitto” tra una vecchia “fidanzata” che non ci si riesce a togliere dalla testa e l’attrazione per una “nuova” fiamma che si comincia a frequentare, intrigati ancor di più dalle schermaglie tipiche di una relazione agli albori.
Diciamo che nella musica, a differenza di quello che succede nella vita reale, il
tenere il piede in due (o più) scarpe, può non essere fonte di preoccupazioni, creando addirittura, spesso, soluzioni piuttosto produttive, ma in questo caso specifico il “rapporto” si dimostra ancora abbastanza “conflittuale”, quasi come se i nostri non avessero ancora deciso a quale sentimento abbandonarsi, incapaci, altresì, di farli convivere contemporaneamente in maniera completamente organica e creativa.
Il quartetto sembra, dunque, continuamente “combattuto” tra questi due mondi musicali, favorendo quell’approccio “Nirvaniano” che presumibilmente conosce meglio e tuttavia fornendo interessanti indicazioni, pur senza essere in grado di ostentare la stessa competenza e sicurezza, anche quando sceglie di allontanarsene.
La title-track, “K” e “Queen ant” sono buoni esempi di tale processo parzialmente “incompiuto”: le due anime dei Failure s’incontrano, offrono spunti degni di nota che, però, si perdono in un amalgama e in una consistenza da perfezionare, mentre andiamo decisamente meglio con la conclusiva “Execution”, dove una linea melodica di buona qualità viene impreziosita da suggestive chitarre oblique (
quasi Voivodiane!) e da un cantato piuttosto efficace in tutte le sue velleità interpretative, che prevedono anche il ricorso a pertinenti screaming e growling.
Meno problemi, ma anche, visto il loro superiore rigore formale di marca Seattle-esque, minore “impatto” artistico, li creano “Real best friend”, “Kill my friend”, “Forever” (il pezzo migliore di questa particolare sezione) e “Silence”, tutta roba scaturita da una formula ricca d’adeguate dosi d’irruenza, disperazione, pesantezza, malinconia e capacità ipnotica, ma probabilmente anche caratterizzata da modalità espressive un po’ troppo sfruttate per poter fare davvero la differenza.
La netta sensazione di avere a che fare con una band nel bel mezzo del più classico dei
work in progress rappresenta, dunque, l’annotazione con la quale ultimare l’analisi di questo “Bad karma”, da giudicare come un passo interlocutorio e verosimilmente propedeutico alla crescita dei Failure, che mi sento di ipotizzare dagli esiti favorevoli, se solo contemplerà una maggiore armonia tra le varie pulsioni “affettive” presenti nella sua morfologia.
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