Signore e signori, Ayreonauti e non, benvenuti nel lato oscuro della mente di
Anthony Arjen Lucassen, uno dei pochi veri geni musicali che il secolo scorso ci ha consegnato in ambito metal, insieme a Devin Townsend, Fratello Metallo e pochi altri. Questa volta, però, cari estimatori del lungo olandesone, preparatevi ad un viaggio inaspettato, doloroso, contorto, e ciò nonostante affascinante come i precedenti.
Arjen ha appena attraversato una fase di vita difficilissima; il divorzio, problemi fisici ed economici, la disillusione ed il dolore hanno fatto breccia nella mente perfetta di un uomo al servizio delle sue Muse, e tutto ciò ha causato un completo rivolgimento, una messa in discussione di tutti i principi, le certezze, le colonne sulle quali ogni uomo costruisce, a fatica, la propria esistenza e la propria ragione di essere al mondo.
Tutto questo, proiettato nella mente di Arjen, ha creato una sorta di ‘buco nero musicale’: niente più Ayreon, niente più mega-produzioni con decine di ospiti famosissimi, niente più power/prog fantascientifico lanciato a mille all’ora e pieno di energia ed entusiasmo, ma riflessione, silenzioso pensare, una formazione a 4 con il solo (bravissimo)
Jasper Steverlinck alle parti vocali; e, sopra tutto, l’assistenza, alla chitarra, ai testi e alla vicinanza nella vita personale, della brava
Lori Linstruth, la nuova musa nell’esistenza artistica e privata di Arjen. Il risultato è un cd a dir poco oscuro, in cui, cari amici, farete bene ad avventurarvi con molta cautela: qui le composizioni si allungano, tingendosi di grigio e di verde scuro, scavando con dolorosa lentezza nelle pieghe dell’animo umano, alla ricerca di un motivo, una ragione, una via di fuga dalla notte che, a volte, sembra più lunga del previsto. I momenti prettamente metal sono incastonati, come piccole gemme, all’interno di brani che sembrano mostri Lovecraftiani dotati di vita propria, con un cantato bellissimo ed ipnotico, e mai come in questo progetto si sente lontano un miglio l’influenza dei Pink Floyd nella quota compositiva di Lucassen. Uno via l’altro, questi 6 piccoli gioielli neri vi scorreranno dalle orecchie all’anima e viceversa, lasciandovi sensazioni davvero diverse e disparate, ma di certo facendovi non poco agitare sulla sedia: “Guilt Machine” è un progetto che non mira a niente, che altro non è se non la voce di un uomo solo, che scopre se stesso, ed ha paura di ciò che lo specchio riflette. Non aspettatevi le pompose atmosfere di “Universal Migrator”, ma immaginatevi i Porcupine Tree (garantisce Chris Maitland alle drums) mescolati ai Floyd più lisergici, con qualche improvvisa spruzzata di rabbioso metal, questa volta funzionale all’espressione di uno stato d’animo sofferente, ululante rabbia e dolore e pena ed angoscia.
Un disco che ho fatto fatica a riascoltare, e non per la sua qualità, ma per le sensazioni davvero intense e disturbanti che mi provoca ogni volta che schiaccio sul tastino play.
Benvenuti, si diceva, nel lato oscuro di Arjen Lucassen: siete davvero pronti ad entrare?
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