“Essere diversi”. Espandere la propria musica in diverse direzioni piuttosto che tenerla imbrigliata entro determinati schemi. E poi la cosa davvero importante, comporre belle canzoni, creare strutture bizzarre e volubili riuscendo a legarle assieme con coerenza e accessibilità senza che si possa rischiare di sfuggire all’attenzione del fruitore dei propri sforzi creativi.
Sono questi, in estrema sintesi, i precetti fondamentali della missione dei migliori frequentatori della “alternative nation” (se è mai esistita veramente!), dei propugnatori della contaminazione efficace, delle sperimentazioni e delle ricerche soniche
anche apparentemente sfuggenti, ma sempre corredate di un obiettivo concreto, quello di comunicare forti emozioni.
Un traguardo impegnativo che i protagonisti di questa recensione, i
Verme Robots (ex
Crawler), sembrano aver ben chiaro in mente e che ascoltando il loro debutto ufficiale licenziato dall’etichetta indipendente salernitana I Make Records, si può considerare, se non proprio pienamente raggiunto, assolutamente prossimo alla sua concretizzazione, vista la qualità con la quale i nostri affrontano quella che potremmo per semplicità definire materia
crossover, un “terreno minato” per la sua difficoltà “oggettiva”, per le imponenti (soprattutto passate) frequentazioni e pure perché oggi il “mercato” sembra verosimilmente più interessato a forme musicali maggiormente rigorose e tradizionali.
Il contenuto di “Crawling in the rush hour”, variegato di schegge sonore che vanno dal jazz al (post) hardcore, passando per il funk, il metal, il grunge e la new-wave, elabora con intelligenza e misura il nutrito background presumibilmente posseduto dai suoi ideatori riuscendo nell’arduo intento di manifestare un certo
carisma anche quando tale retroterra culturale si fa più circoscritto e identificabile, pur rimanendo, è bene sottolinearlo, ben lontano dall’evocare narcisistici o velleitari deja-vu.
Potremmo parlare, dunque, di tensioni liquido-inquietanti non troppo lontane dalla filosofia dei Tool, di dissonanti itinerari psichedelici attigui alle visioni dei Voivod, del nervoso melange noise-pop-wave tipico di certo indie-rock americano o ancora dell’approccio violento dei campioni del nu-metal e di alcune invenzioni espressive in odore di Primus (a cui si aggiungono, seppur limitati al solo refrain della splendida “Ten”, fugaci strappi riottosi vagamente riconducibili al modus operandi dei RATM!), ma, come anticipato, tutto s’incastra in una sintesi musicale piuttosto equilibrata ed eccitante, a cui manca veramente poco (appena un pizzico di ulteriore “messa a fuoco” complessiva, specialmente nelle parti espressamente “emotive” - guarda caso anche il titolo del pezzo che mi convince meno dell’intero lotto - e il superamento di alcune ripetitività nelle architetture armoniche) per il conseguimento della suddetta “integrità incondizionata”.
Rimane la sensazione di un disco teso, intenso, sufficientemente “diverso”, che alterna subitanea energia a magnetica introspezione, con l’urgenza di chi tramite questa dicotomia vuole esorcizzare i propri demoni personali, riuscendo nel procedimento empatico di coinvolgere in tale esperienza anche l’ascoltatore dell’opera … in fondo proprio quello di cui si parlava all’inizio di questa disamina.
Non resta che lo spazio per i complimenti, auspicando nuove mosse artistiche ancora più consistenti e convincenti, e per un piccolo suggerimento … cercare in futuro di “usufruire” in maniera maggiormente ampliata della bellissima voce di Teresa Tedesco … il suo contributo in “Change” (in alternanza con l’ottimo Antonio Senesi) rappresenta un momento di notevole suggestione e un intrigante valore aggiunto.
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