Come forse sapete, a causa di precedenti esternazioni sul tema espresse su queste stesse colonne, considero quella di Michele Luppi una delle migliori voci rock del nostro Belpaese, in grado di rivaleggiare senza timori reverenziali con i più autorevoli (e intendo proprio con tutti i “primi della classe”, eh!) campioni planetari nel campo della fonazione modulata.
Questa stima praticamente incondizionata già da sola può lasciar intuire cosa posso pensare di questo secondo albo a nome
Los Angeles, il “mezzo” attraverso il quale il vocalist di Carpi sfoga tutta la sua devozione per l’Adult Oriented Rock, una delle grandi passioni della sua esistenza artistica.
“Neverland” è, infatti, il classico disco in cui la prova del cantante è talmente maiuscola da rendere “quasi” secondaria la qualità delle canzoni, in questo caso, a differenza di quanto accaduto nel debutto auto intitolato del 2007, non solamente ripescaggi di brani già editi, scritti da autorità del settore, ma in buona parte frutto delle sinapsi cerebrali dei protagonisti diretti dell’opera.
Ovviamente il “quasi” è una sorta di piccola provocazione, poiché se è vero che in tali situazioni la prestazione vocale risulta un aspetto sicuramente molto influente sul risultato finale, è altresì necessario affermare che da sola difficilmente potrebbe volgere a proprio favore le sorti valutative di un disco nel suo complesso.
A questo punto, dunque, sarebbe più giusto asserire che la laringe illuminata di Luppi contribuisce in maniera significativa ad innalzare a livelli stratosferici i pezzi superiori dell’albo e ad impreziosire enormemente quelli provvisti solamente di una dotazione compositiva “normale”, di una scrittura di buon livello, che però, verosimilmente, in “mani” diverse e meno capaci, otterrebbe effetti parecchio diversi.
Con una produzione affinata e la “solita” presenza di grandi ospiti di comprovata affidabilità, le canzoni di “Neverland” si dipanano tra momenti di enorme suggestione e soddisfazione e situazioni leggermente meno esaltanti, nonostante siano sempre (e ribadisco sempre) garantite, oltre all’irreprensibilità tecnico-interpretativa, anche un notevole gusto estetico, in grado di rendere piacevole anche quel pizzico di “banalità” che talvolta affiora dalle composizioni.
La partenza è davvero ottima: la title-track unisce linee melodiche accattivanti a forza d’impatto, e se l’esordio è vincente, alcuni dei passi successivi saranno addirittura meglio, scatenando lo scorrere di quei brividi d’approvazione così efficaci per distinguere il “bello” dal “travolgente”.
Parlo di “City of angels” e di “Promises” intense e incredibilmente appassionanti, dei due pezzi scritti dai gemelli Martin (Khymera, Sunstorm, From The Inside, House of Lords, …) ovverosia “Wait for you”, effervescente e accattivante come solo i grandi brani di esuberante rock “adulto” (qual è, del resto la “Intuition” dei TNT citata nel finale di traccia) sanno essere, e “Tonight tonight”, pregna di magnetismo e impreziosita da un refrain di cui non è facile liberarsi fin dal primo ascolto.
Buone vibrazioni le riservano anche “Nowhere to run” (realizzata con il supporto di George Lynch) e “Living inside” (altro ritornello a “presa rapida”), mentre appena inferiori appaiono, a mio parere, “Higher love, “Welcome to my life” e la vagamente Bad English-esque “Paradise”, comunque degne di plauso per il modo in cui viene gestita una “materia prima” forse non proprio strabiliante.
Non ho dimenticato “Nothing to hide”, la “sfida” di Michele ad un “mostro” del settore qual è (stato?) Richard Marx; l’ho lasciata volutamente per ultima per poterne celebrare le doti di manifesto dell’AOR d’autore, risolte in maniera esemplare dai Los Angeles e per sfruttarne il titolo come parafrasi complessiva di tutto l’album … non c’è proprio “nulla da nascondere”, è tutto estremamente chiaro e lampante … Luppi e i suoi soci “californiani” sono una splendida realtà del rock “radiofonico” internazionale.
Fatela vostra.
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