Ero nella mia stanza, con questo quadratino di plastica porpora in mano, copertina totalmente ermetica e avvolto da una curiosità mista a paura, poi prendo il dischetto e lo ficco nel mio fidato stereo Technincs……
…..facciamo un passo indietro. Anzi diversi passi. Dire che i
Deep Purple hanno rappresentato tutto per me in campo musicale non è un’esagerazione, sono stato introdotto nel mondo della musica dura da Made In Japan e ancora oggi lo reputo il miglior disco che abbia mai ascoltato, poi ho esplorato ogni angolo del mondo hard and heavy ma sistematicamente ritorno sempre da loro, non c’è niente da fare. Dire anche che considero il Signor
Ritchie Blackmore come il più grande chitarrista che abbia mai solcato questo pianeta, non è neanche questa un’esagerazione (in misura obiettiva credo almeno sia nei 5 signori della chitarra elettrica), ma che c’entra Blackmore qui? C’entra, c’entra... poi ci torniamo. Credo che ogni essere senziente su questa terra sia d’accordo nel dire che “Perfect Stranger” sia stato forse il più grande come back della storia dell’hard rock, un disco monumentale in grado di rivaleggiare con i loro capolavori dei primi ’70, poi però un improvviso calo di intensità con prima la brutta copia di “Perfect Stranger” (“The House Of The Blue Light”), poi il divorzio da Gillan, con Ritchie che ne approfitta per creare i Rainbow 2 con un disco come “Slave And Master” (con il fido cagnolino Turner alla voce), ma il risultato purtroppo non è eccellente neanche questa volta seppur qualche spunto di interesse il platter lo dà. C’era bisogno di una nuova svolta di un lavoro che facesse di nuovo gridare al miracolo, c’era bisogno di una nuova reunion della Mark II. Gillan viene richiamato, nonostante le resistenze del Man In Black . Ma questa volta le forti tensioni tra i due non riescono a ricreare la magia di un “Made In Japan” (ricordiamo che anche in quel disco i due erano in forte rottura), purtroppo la corda questa volta si ferma a metà e ne esce un disco “compromesso”, un patto di non belligeranza a nome “The Battle Rages On” che non riesce mai a prendere veramente il volo. Aggiungiamoci che prima della fine del tour mister capriccio Blackmore molla tutto e se ne và, credo che il quadro fosse completo, più di uno in quel tempo ha pensato che i Purple avessero definitivamente chiuso con la musica.
Anno di grazia 1996. Mi vedo apparire davanti agli occhi nella mia alcova preferita (il negozio di dischi) un disco sconosciuto con sopra il monicker dei Deep Purple. Non ne sapevo nulla, ma non importa, lo compro, mi esamino di corsa il libretto, che in realtà era un grosso poster apribile e al posto di Ritchie Blackmore, leggo Steve Morse. Vi giuro ho pensato questo:
” chi è questo tizio che osa suonare la chitarra nei Purple?” A questo punto preso da un misto di incredulità e curiosità mi precipito a casa e vi rimando alle prime righe di questa recensione.
Parte
Vavoom: “Ted The Mechanic” e capisco subito che i miei amati miti avevano cambiato strada, sparite le atmosfere regali, sparite le sfumature epiche, la fa da padrona il funk e certo jazz mischiato al fusion con forti pennellate di heavy blues il tutto amalgamato nel micidiale shred di Morse, che è quanto di più lontano avevo mai immaginato di sentire dai Deep Purple. Ma tutto funzionava perfettamente e mantenere il piede fermo durante la prima traccia fù impresa ardua. Ma il vero colpo al cuore venne subito dopo, con l’inizio dell’arpeggio di “Loosen My Strings”, ancora mi ricordo il brivido che mi è passato lungo la schiena quando Gillan intona il ritornello, ero di nuovo innamorato, la mia stanza d’improvviso si dipingeva ancora una volta di porpora. La cosa che mi colpì di più di questa nuova direzione intrapresa dalla band fù la straordinaria spontaneità dei cinque, quasi fosse una jam session improvvisata, nelle melodie si percepiva l’odore di fumosi pub o storie di vita vera e a volte di paure nelle solitarie veglie notturne. Non più storie che raccontano il mondo, bensì il mondo ora penetra dentro di noi e ci fa percepire emozioni. L’apice del disco lo troviamo alla traccia 4 con quella “Sometimes I Feel Like Screaming” che è da considerarsi uno tra i veri capolavori mai scritti dal gruppo inglese e qui la sequenza di note portanti del brano tirate fuori dalle mani di Morse e il suo modo unico di suonarle è la risposta definitiva al perché “Purpendicular” sia un grande, grandissimo ritorno: se questo disco fosse stato suonato da Blackmore non sarebbe stato cosi bello. Si, questo è il suo più grande pregio, si ritrova un’identità propria tagliando di netto tutti i ponti col passato. Chi è mai riuscito a fare qualcosa del genere? Pochissimi se non nessuno. E poi la gioia di ritrovare un Gillan su registri melodici eccezionali di una "Cascades: I’m Not Your Lover”, o l’ennesima conferma che Jon Lord sia il Signore indiscusso dei tasti d’avorio, in grado di cesellare di nuovo un affresco perfetto in solchi come “Hey Cisco” o “Rosa’s Cantina”. E il cameo di quell’armonica che ogni tanto spunta qua e là a dare quel tocco di colore definitivo nel rendere il tutto ancora più caldo e attraente. Con la sezione ritmica a chiudere perfettamente il cerchio di un lavoro veramente senza difetti e divertente e emozionante dall’inizio alla fine. I Deep Purple avevano cambiato pelle, ma erano di nuovo loro, avevano dimostrato ancora una volta al mondo chi fossero i padroni indiscussi dell’hard rock e “Purpendicular” risulterà essere un nuovo autentico capolavoro da aggiungere a una lunga lista di eccellenze che solo dei geni potevano creare, ed ora a questi geni se ne era aggiunto uno nuovo, un chitarrista dal fisico possente e dal sorriso rassicurante ma dalle magiche dita che promette col suo talento di mantenere in vita ancora per lungo tempo la leggenda del Profondo Porpora… chissà nel 1996 cosa avrà pensato un uomo vestito di nero, rinchiuso nel suo castello tra maghi, folletti e alchimie di tutto questo?... forse è meglio non saperlo mai, certi pensieri a volte possono far davvero paura.
P.S.: ho assistito alla data italiana del tour di “Purpendicular” in una magica notte nel cielo romano dell’EUR e vi devo confidare che i Purple dal vivo, anche quelli del 1996/97 sono un qualcosa di assolutamente inarrivabile. Ho partecipato a molti concerti nella mia vita. Ma questo rimarrà sempre indelebilmente scolpito nel mio cuore.
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri